Quante volte abbiamo
sentito ripetere il noto mantra: ‘ce lo chiede l’Europa?’
Anche prima della crisi i
politici italiani lo hanno ripetuto allo sfinimento, soprattutto per implementare
misure di aumento della pressione fiscale.
Lo stesso, ma con maggior
frequenza, abbiamo sentito ripetere in periodo di crisi. Una comunicazione
simile è stata diffusa da tutti i politici di Paesi incapaci o poco pronti a
fare riforme strutturali come scusa per aumentare la pressione fiscale.
Ma cosa chiede l’Europa
davvero a chi è in difficoltà?
Intanto non risultano
vere e proprie imposizioni, quanto piuttosto indicazioni basate sull’esperienza
di comportamenti che hanno portato ad effetti positivi in casi precedenti. Per
lo più chi consiglia austerità non pensa ad un aumento delle tasse, ma ad una
riduzione non sporadica della spesa e a riforme strutturali che, rendendo meno
onerose in termini di tempo e denaro le iniziative imprenditoriali, richiamino
investimenti interni ed esteri dando slancio all’economia.
Questo nella piena
consapevolezza che le tasse deprimono l’economia al punto che le entrate dello
Stato vanno a diminuire (curva di Laffer o riduzione della domanda aggregata
dicono la stessa cosa), ma anche i tagli della spesa hanno nel breve termine
effetto di contrazione. Questo effetto è però di gran lunga inferiore a quello
di nuove tasse, come ampiamente dimostrato da studi dell’Università di Harvard
condotti principalmente dall’italiano Alberto Alesina. Da qui le riforme che
aiutino a compensare gli effetti recessivi della politica fiscale. Eventuali
dismissioni di patrimonio statale possono avere il doppio effetto di aiutare a
ridurre gli impatti restrittivi di cui sopra e, nella migliore delle ipotesi,
mettere a maggior frutto le potenzialità che lo Stato, per mancanza di mezzi o
di competenze, non è in grado di sfruttare.
Perché dunque si è scelto
di aumentare la pressione fiscale, pur conoscendone gli effetti recessivi?
Perché ridurre gli ambiti
dello Stato significa ridurre il potere dei politici di distribuire commesse,
dirigenze e varie prebende a coloro che li sostengono con i loro voti o con le
loro donazioni.
Allo stesso modo rendere
efficiente il sistema economico significa rimuovere le rendite di posizione
delle quali si alimentano altri sostenitori degli stessi politici.
Quindi se i politici
facessero quello che ‘ci chiede l’Europa’ (ma per davvero) perderebbero
l’appoggio politico e finanziario su cui poggia il loro potere, con solo
vantaggio per i cittadini comuni.
Va da sé che per vincere
le guerre (e non le battaglie) si tagliano i rifornimenti al nemico, e i
politici incapaci lo sanno benissimo.
L’esempio più tragico di
una situazione simile è la Grecia, in cui i politici si sono rifiutati per anni
di diminuire prebende e sprechi, preferendo aumentare le tasse e precipitando
il Paese in una spirale recessiva da cui è difficile uscire. Solo molto
recentemente, messi con le spalle al muro e quando forse era già troppo tardi,
hanno iniziato ad agire con criteri meno dannosi.
In altre parole coloro
che impongono livelli maggiori di tassazione dicendo ‘ce lo chiede l’Europa’
fanno danno due volte: una perché non fanno quello che viene consigliato per il
bene di tutti pur di mantenere il potere per loro e per gli amici dei loro
amici, l’altra perché gli elettori, a forza di sentirsi ripetere il mantra,
hanno finito per identificare l’Europa con una politica di rigore principalmente
basata su nuove tasse, con il bel risultato di far guadagnare voti a chiunque
tuoni contro l’Europa, magari promettendo mari e monti in caso di aumento del
perimetro dello Stato, inclusa la politica monetaria, senza pensare che le
conseguenze di un’uscita dall’Euro e di un aumento della spesa di Stato
farebbero impallidire quanto visto finora.
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