Disclaimer

Disclaimer:



Il contenuto di questo sito è di proprietà esclusiva di Francesco Checcacci. Tutto il contenuto può essere utilizzato ma è obbligatorio citare la fonte.
I punti di vista espressi sono dell'autore e non riflettono opinioni di organizzazioni di cui l'autore stesso potrebbe far parte.







The content of this website is the exclusive property of Francesco Checcacci. All content can be utilised as long as the source is referenced. The opinions expressed are the author's own and do not reflect views of organisations with which the author maybe associated.



Thursday 31 October 2013

CONSIDERAZIONI SU BLINDA L'EQUAZIONE DEL SOVRANISMO COME SE FOSSE ANTANI

(ovvero considerazioni su: http://www.scenarieconomici.it/la-proposta-sovranista-della-base-del-movimento-5-stelle-ritorniamo-alla-lira-e-diciamo-addio-al-debito-pubblico/)


Parte prima: è tutta colpa dell’Euro?

Intanto la premessa: tutto parte dall’idea che l’Euro sia IL problema che ha l’Italia, e IL motivo per cui non cresciamo, abbiamo la disoccupazione etc. A parte l’ovvia contraddizione in termini di essere per la decrescita e poi porsi la mancanza di crescita come problema (ma si sa, noi siamo la ggente etc. etc.) vediamo se i dati danno credito a questa ipotesi. I grafici sotto sono tratti da dati di FMI, World Bank ed Eurostat.

Intanto l’idea di molti è che l’export italiano sia diminuito, sostituito da quello tedesco.


Poniamoci per iniziare una domanda: la bilancia commerciale dell’Italia con l’area Euro come si è mossa? Il grafico è sotto, e dimostra che dal 1993 la bilancia è stata mediamente positiva, e raramente negativa.


Questa è stata mediamente negativa praticamente solo durante il picco della crisi del debito.
Poi ci sono quelli che dicono (più o meno): l’Italia ha perso esportazioni dato che l’Euro ha favorito la Germania.
Guardiamo dunque i grafici delle esportazioni tedesche e di quelle italiana verso l’area Euro.
Sorpresa: sono praticamente sovrapponibili. La scala è ribasata al 1989 in quanto la Germania ha sempre esportato, in termini assoluti, più dell’Italia, essendo il PIL tedesco più grande di quello italiano. Quando le esportazioni italiane sono calate, altrettanto e in proporzione praticamente identica hanno fatto quelle tedesche, e questo è avvenuto al momento della crisi Lehman (2008).


Altri sostengono che la produttività in Italia sia calata per colpa della combinazione inflazione/valuta rigida: in altre parole l’Italia, che ha avuto inflazione più alta della Germania, non potendo svalutare avrebbe perso competitività. A guardare solo il dato italiano e quello tedesco questa spiegazione sembrerebbe plausibile.

 

In realtà, prima di trarre conclusioni da una serie di dati limitata, serve un campione di controllo, come sa chiunque abbia studiato una qualsiasi materia scientifica. E qui casca l’asino. Infatti la Spagna ha avuto nello stesso periodo inflazione più alta di quella italiana, eppure la produttività spagnola è salita.



Ma soprattutto ricordiamo che alcuni settori dell’attività economica sono aperti alla concorrenza degli altri Paesi dell’area Euro; altri sono invece protetti a livello nazionale. Se l’Euro fosse davvero il colpevole del calo di produttività, questa dovrebbe necessariamente essere calata di più nei settori ‘aperti’.
Peccato che, come dimostrato dalla tabella sotto (che riporta la fonte: dati EU KLEMS; dati disponibili e di libero accesso, come tutti quelli visti finora), sia esattamente il contrario. Questi dati riguardano la TFP o Solow residual, ovvero la produttività al netto delle componenti lavoro e capitale, che vanno correttamente escluse.


Prima conclusione (e già definitiva per le persone ragionevoli): in sostanza quanto sopra smonta abbondantemente la premessa, rendendo quindi nullo l’argomento di base ed inutile il discorso sovranista.

Parte seconda: facciamo conto che quanto sopra non esista, e vediamo l’articolo


Vediamo però, a questo punto per puro divertimento, alcune considerazioni sull’articolo stesso.

1-Non è vero che il ritorno della sovranità monetaria sia l’unico modo per avere una de facto svalutazione competitiva (v. Gopinath, prof. Di Harvard. http://www.princeton.edu/~itskhoki/papers/FiscalDevaluations.pdf). Inoltre una chicca che a Lorsignori è sfuggita:  il tasso di cambio in un’economia globalizzata, soprattutto per i Paesi sviluppati, conta sempre di meno, dato che la politica monetaria della valuta di riserva influenza sempre più quella di tutti gli altri. Intervento di un’altra che ci capisce, Hélène Rey della LBS (incidentalmente in UK non è che abbiano per l’Euro un amore viscerale; anche se Rey è francese vive a Londra da un pezzo): http://www.voxeu.org/article/dilemma-not-trilemma-global-financial-cycle-and-monetary-policy-independence

2-E' almeno controverso che il coefficiente di pass-through si possa stimare senza tener conto del livello di debito di partenza. Comunque controllate i precedenti storici (ma tutti). Una sintesi parziale la trovate qui: http://lettotralerighe.blogspot.it/2012/12/la-stampa-di-moneta-le-bolle.html

3-E' almeno discutibile che si escluda il periodo degli anni 70 dal computo perché i dati di inflazione sarebbero dovuti alla crisi petrolifera: è preferibile stimare in che misura e ricalcolare l’inflazione al netto di tale effetto. Comunque mancano dati, e in ogni caso resta il problema di cui sopra.

4-Non si tiene conto che, se è vero che un certo grado d’inflazione aiuta a ripagare il debito, l’aggiustamento di competitività, anche in sistema di cambi aperti, richiede inflazione sistematicamente PIU’ BASSA dei partner commerciali, specialmente dato il contributo di Rey.

5-La perla finale: prendere come esempio l’Argentina. Non bastasse che contro un tasso d’inflazione ufficiale intorno al 10% stime indipendenti parlano di un tasso reale intorno al 25% (ovvero, signori, la crescita reale argentina è NEGATIVA DI BRUTTO: http://en.mercopress.com/2013/04/12/argentina-inflation-congress-index-for-march-was-1.54-and-24.43-in-last-12-months) c’è anche una letteratura di minacce ed arresti a chi stimasse il tasso d’inflazione in modo indipendente. In ogni modo è almeno noto che c’era una multa di circa 120.000 dollari americani inflitta a chi stimava l’inflazione in modo indipendente.
Perché dico ‘c’era’? Ebbene, per non cadere in accuse da teoria del complotto sappiate, o attenti analisti dell’economia e della politica internazionale, che nel Maggio 2013 i tribunali argentini hanno finalmente reso illegali le multe del governo che tanto vi garba (che erano, ricordo, di circa 120.000 dollari americani) inflitte a chi stimava l’inflazione e non fosse al soldo del governo stesso: evidentemente i giudici pensano che la presidente argentina e la sua cricca stiano nascondendo la verità. Tutti al soldo degli USA? (fonte: http://qz.com/84838/argentines-are-now-allowed-to-know-the-real-rate-of-inflation-thanks-to-their-courts/)
In soldoni: il tasso ufficiale d’inflazione argentino è sottostimato clamorosamente. Il fatto che la legge argentina fino a poco tempo fa proibisse a chiunque non facesse parte del Governo di pubblicare dati di inflazione già basterebbe ad indurre il sospetto.
Infatti, se il tasso d’inflazione ufficiale fosse vero, com’è che c’è un florido mercato nero di dollari in Argentina con quotazione ben superiori a quelle ufficiali? E com’è che il governo sta saccheggiando a man bassa prima i fondi pensione, poi aziende che aveva venduto ed ha nazionalizzato, e ora le riserve della Banca Centrale. Se le cose andassero bene, non ce ne sarebbe bisogno.
E’ interessante notare come si dia credito alla propaganda (abbiamo visto che di questo si tratta) di uno dei regimi più corrotti al mondo (ci sono le classifiche: tra le altre quelle di transparency international) pur di continuare ad arrampicarsi sugli specchi.
Infine: la politica monetaria indipendente per un Paese che ha l’interazione di scambi internazionali dell’Italia a confronto di uno che ne ha molti di meno è semplicemente incomparabile (per cui v. Rey).

Seconda conclusione (e due: repetita iuvant): continuate pure a vestire l’assurdità con equazioni, ma il senso della supercazzola di cui sopra, ovvero del  vostro discorso, resta: se i soldi mancano, li stampiamo. Oltretutto questo è essenzialmente equivalente a dare le chiavi della pressa da stampa ai politici italiani, che Lorsignori non fanno altro che dire siano i peggiori delinquenti del globo terracqueo. Interessante.


Parte terza: facciamo di nuovo conto che quanto sopra non esista, e vediamo la fattibilità di un’uscita

Anche ammettendo che l’Euro fosse IL problema (che abbiamo dimostrato non essere) e che gli argomenti dell’articolo avessero un senso (che abbiamo visto non avere), un’uscita sarebbe comunque auspicata dagli autori per effettuare una svalutazione competitiva.

Ebbene in Italia, non sappiamo se Lorsignori l’avevano notato, ci sono in circolazione alcuni miliardi di euro. E’ altrettanto chiaro che l’anticipazione sarebbe di una svalutazione di almeno il 20%. E’ quindi ovvio che ci sarebbero grandissimi incentivi a mantenere gli euro: infatti questo equivarrebbe ad un guadagno di almeno il 20% senza rischio. Anticipando un’uscita i risparmiatori (e tutti gli altri) italiani e non metterebbero in atto una corsa agli sportelli. In Grecia e Spagna, all’avvisaglia di un’uscita, i depositi bancari sono calati del 25% circa. Qui sotto il grafico della Grecia. Non mi ricordo da dove l’ho preso, ma i dati sono della BIS (o BRI).


La sola ragione per cui il sistema bancario di questi Paesi non è collassato è stata una massiccia iniezione di liquidità da parte della BCE. Ma se volessimo uscire per svalutare (ovvero per fregare gli altri) quanto è probabile che la BCE interverrebbe per evitare il collasso dell’Italia? Mancando il sostegno della BCE, non resterebbe all’Italia che stampare essa stessa, con effetti inflattivi ben più gravi di quelli previsti con i coefficienti di pass-through stimati da Lorsignori. La conseguenza più probabile sarebbe infatti un’iperinflazione. Naturalmente niente vieta di fare come l’Argentina, ovvero orchestrare una propaganda che convinca la ggente che l’inflazione sta salendo, ma non troppo. Questo mentre invece i prezzi salgono, ma si sa: se la TV e soprattutto la Rete dicono una cosa, questa dev’essere vera.

Inoltre sarà sfuggito un (altro) dato: i tedeschi stanno effettuando una rivalutazione interna attraverso l’aumento dei salari. Ecco il grafico (fonte Deutsche Bundesbank, la Banca Centrale tedesca). Non fanno troppa pubblicità su questo dato perché gli elettori tedeschi notoriamente non amano molto l’inflazione.


Conclusione finale.

Premesso tutto quanto sopra non resta che l’ovvia conclusione che si può esprimere con una domanda:

Ma la mattina prendete il latte o vi attaccate al lanternon* dal vino?


*Nota per i non toscani: in Toscana si dice 'lanternone' il fiasco da due litri e in alcuni casi si usa 'dal' al posto di 'di'

Wednesday 11 September 2013

Curve pericolose: Laffer, il reddito disponibile e la spesa discrezionale



C’è stato sempre un gran dibattere nei circoli economici sulla validità della curva di Laffer. Da quando la crisi è scoppiata, però, l’Italia si è scoperta non solo avere 60 milioni di allenatori della Nazionale, ma anche almeno 30 milioni di esperti di politica economica, fiscale ma soprattutto monetaria; sul fatto che se va bene appena un decimo di questi sappiano contare come Dio comanda soprassediamo pure.

Per chi non fosse uno di questi ‘esperti’, la curva di Laffer, mettendo in relazione pressione fiscale ed entrate dello Stato, indica che passato un certo livello di pressione fiscale ad un aumento delle tasse corrispondono minori entrate per lo Stato stesso. Va da sé che questo non è dovuto, come alcuni credono, se non molto marginalmente all’aumento dell’evasione. Il fatto è proprio che troppe tasse deprimono l’economia.

Il livello di tasse passato il quale le entrate scendono, però, non è lo stesso in nazioni o periodi storici diversi, e questo ha portato alcuni a concludere che la teoria non valga nulla. E’ quindi il caso di ricordare come è nata la teoria e di vedere che cosa ne influenzi il punto di flessione. Laffer utilizzava la curva che ha preso il suo nome per prevedere gli impatti della politica fiscale nello stesso Paese ed in tempi relativamente brevi.

In altre parole il livello di tassazione è solo uno dei tanti elementi che influenzano quella che Keynes chiamava domanda aggregata, attraverso la componente che più o meno tutti chiamano reddito disponibile, e in particolare la spesa discrezionale. Questa rappresenta la spesa ‘libera’, ovvero quello che resta dopo aver effettuato le spese ‘necessarie’ (cibo, salute, casa, bollette). Per inciso l’influenza della tassazione sul reddito disponibile è vera anche senza presumere vera la teoria della domanda aggregata (e quindi anche per i non keynesiani), ma qui si entrerebbe in tecnicismi che è meglio evitare.

Ovviamente ci sono altri elementi che influenzano la spesa discrezionale. Questi elementi spiegano in gran parte i differenti livelli a cui la tassazione diminuisce nei diversi Paesi.

Un esempio pratico: in Scandinavia le tasse sono notoriamente alte, ma questo non deprime l’economia. Molto probabilmente questo avviene perché in quei Paesi i cittadini non devono spendere praticamente mai nulla per istruzione, salute e altro e quindi hanno comunque reddito disponibile relativamente alto.

L’Italia negli ultimi anni ha invece agito con una politica fiscale che non poteva non produrre effetti negativi: infatti lo Stato italiano ha allo stesso tempo alzato le tasse e ridotto i servizi. I cittadini si sono visti dunque ridurre il reddito disponibile non solo per effetto delle tasse, ma anche a causa delle maggiori spese per servizi che devono affrontare. Oltretutto l’aspettativa che è stata instillata è di ulteriori spese a carico dei cittadini stessi, che quindi tendono, quando possono, a mantenere una parte del loro reddito ‘sotto il materasso’, ad ulteriore diminuzione della spesa discrezionale.

Lorsignori a questo punto ribatterebbero che il problema non è quindi la spesa di Stato, e che basta spendere meglio per avere un’Italia di tipo svedese. Peccato che la Svezia stessa, insieme alla Danimarca, abbia capito per tempo che non poteva permettersi il livello di spesa corrente del passato, che era insostenibile per motivi demografici e di produttività, e da circa una decade abbia proceduto ad una forte ondata di liberalizzazioni e riforme strutturali che ha aumentato esponenzialmente la produttività e ridotto il peso dello Stato in rapporto al PIL anche mentre la media dei Paesi lo aumentava a causa della crisi. Risultato: economia svedese in crescita.

L’Italia ha già perso un’occasione d’oro quando, all’ingresso nell’Euro, la spesa per interessi è calata progressivamente dal 25% del PIL a livelli inferiori al 10%. Mantenendo i livelli di spesa uguali a prima, il rapporto sarebbe naturalmente calato. E’ più o meno quello che ha fatto la Svezia, dove dal 1993 al 2011 la spesa di Stato sul PIL è calata del 19%. Ma i politici di casa nostra hanno scelto di aumentare la spesa corrente, e il risultato è stato quello della Svezia pre 1993: crescita bassa e debito in aumento. Veramente geniale!

L’Italia a questo punto potrebbe prendere la strada della Svezia, oppure rischia di prendere quella della Grecia. Ai cittadini la scelta: prevarrà l’impostazione logica o, come spesso accade nel Bel Paese, quella ideologica?


Friday 2 August 2013

Di scimmie e noccioline, ovvero di giusti compensi e di amministratori (e politici) competenti


Viene utilizzata nella lingua inglese un’espressione idiomatica colorita, attribuita a James Goldsmith, per descrivere quei datori di lavoro o committenti che pretendono che un lavoro difficile e che necessita tempo per essere svolto venga fatto a regola d’arte ma pagando poco o nulla: ‘if you pay peanuts, you get monkeys’, ovvero ‘se paghi noccioline, ti prendi le scimmie’.

Senza voler offendere i simpatici primati, pare ovvio ai più che questi non siano in grado di svolgere mansioni particolarmente difficili e che richiedono competenze avanzate. In effetti nella City di Londra era diventata un tormentone l’espressione ‘if you can train a monkey to do this, you shouldn’t’, ovvero ‘se puoi addestrare una scimmia per fare questo lavoro, non dovresti farlo tu’. Ma divaghiamo: magari le implicazioni di questo detto saranno oggetto di un altro post in futuro.

Veniamo piuttosto al punto: a partire da una giusta indignazione per i compensi di politici e amministratori di aziende, per lo più pubbliche, si è diffuso uno zeitgeist favorevole alla riduzione forzata di salari e benefit vari.

E’ tuttavia necessaria una precisazione: questi signori guadagnano decisamente troppo, non tanto perché guadagnino molto in termini assoluti, quanto perché i loro compensi sono esagerati rispetto alle loro competenze ed ai loro risultati. In buona sostanza per ora, figurativamente parlando, abbiamo avuto scimmie e le abbiamo pagate oro invece di noccioline.

Se infatti è sacrosanto pretendere che politici ed amministratori, pubblici e privati, ricevano una paga proporzionata alle loro capacità e a quanto rendono alla collettività (se pubblici), è d’altronde irragionevole pretendere che ci sia qualcuno che abbia capacità e porti buoni risultati lavorando per molto meno di quanto la sua professionalità è valutata sul mercato.

Ecco perché è demagogico chiedere ad un parlamentare se non pensi di guadagnare troppo quando c’è gente che non arriva alla fine del mese. La domanda giusta è invece: non ti sembra di guadagnare troppo dato che non hai risolto i problemi che sei stato votato per risolvere? Questo mette in relazione in modo logico e corretto il risultato del lavoro svolto con un pagamento adeguato (e ovviamente ad oggi porterebbe a stipendi molto bassi per i politici, che i problemi più che risolverli li hanno creati).

Anche sui compensi di amministratori, pubblici e privati, sarebbe corretto porsi sullo stesso piano e chiedere: quanto valore è stata in grado di aggiungere questa persona? Quanta parte del valore aggiunto viene pagata a persone in ruoli simili sul mercato? Solo una volta trovata la risposta a queste domande si può stabilire la giusta retribuzione.

Il rischio di voler abbassare lo stipendio a tutti gli amministratori pubblici (e particolarmente ai dirigenti di aziende semi-pubbliche o in cui lo Stato mantiene la maggioranza della proprietà) è di tenersi gli incapaci (le scimmie del detto inglese) e non riuscire ad attirare i capaci (che non essendo scimmie non si accontentano delle noccioline).

Quindi: benissimo abbassare drasticamente lo stipendio ai politici eletti, avvicinandolo a benchmark esteri. Bene anche fare in modo che esista corrispondenza tra risultati e remunerazione, sempre in linea con il resto del mondo.


Il tutto purché le persone vengano pagate per quello che valgono e non in base ad un semplice ‘guadagni troppo’ o ‘guadagni poco’ che non mette in relazione pagamento e risultati. Il fatto è che troppi incompetenti hanno beneficiato di un welfare dell’ex politico o dell’amico del politico. Questi incompetenti vanno rimossi immediatamente da posti di responsabilità che non hanno le capacità per ricoprire; non si può però pretendere di sostituirli con gente capace e mal pagata: al meglio i capaci resterebbero poco, il tempo per aggiungere una riga al proprio curriculum e rimetterlo in circolazione, al peggio neanche sarebbero disposti a prendersi responsabilità non adeguatamente remunerate, e chi vuol pagare noccioline si troverebbe con le scimmie che si merita.

Friday 19 July 2013

La villa senza fognature e impianto idraulico e l’appartamento dove tutto funziona


Preferireste vivere in una bellissima villa immersa in una campagna spettacolare priva di infrastrutture essenziali come acqua e fognature oppure in un appartamento in una zona tranquilla ma modesta con tutti i servizi di base che funzionano?

Fare business in Italia oggi è come abitare nella bella villa sfarzosa dove mancano gli impianti necessari. Infatti la giustizia civile è lentissima, aprire un’azienda richiede estenuanti adempimenti burocratici e pagare le tasse è astrusamente complicato, e questo senza neanche guardarne il livello.

Molti Paesi del Centro e Nord Europa non hanno potenzialità non solo di stile di vita, ma anche a livello di know-how artigianale e di innovazione (ebbene sì, anche di innovazione, dato che l’Italia, nonostante manchi di alcuni servizi essenziali, continua a competere in alcuni settori ad altissimo contenuto tecnologico, dall’automazione e robotica alla meccanica di precisione, per tacere delle corse auto e moto) ma aprire un’azienda richiede pochi giorni, pochi soldi e pochi adempimenti burocratici, la giustizia civile arriva ad una sentenza in un quarto del tempo che in Italia e quasi tutti gli adempimento periodici si fanno online in pochi minuti.

Chiediamoci: cosa diventerebbe l’Italia se avesse gli impianti di base che funzionano?

Ripartiamo da qui; non si dica che l’efficienza non è roba da italiani, quando l’abbiamo insegnata al mondo due volte: prima al tempo dei romani e poi a quello dei mercanti del medioevo e del rinascimento.

Non dimentichiamoci che la civiltà romana è quella che ha costruito molte infrastrutture ancora funzionanti, o che sono state utilizzate come base per altre più moderne, in tutta Europa.

La ferrovia inglese è nata sui tracciati delle strade romane, tanto che la larghezza dei vagoni rispecchiava quella di due cavalli di epoca romana, uno per ogni senso di direzione. Alcuni acquedotti e fognature costruiti intorno a duemila anni fa funzionano ancora, e non solo in Italia.

 E non si dica neanche che il carattere di un popolo non si cambia, quando è storicamente provato che sono le istituzioni che fanno il comportamento.

Immaginiamo infatti, come ha scritto lo storico Niall Ferguson, un esperimento: prendere uno stesso popolo e dotarlo per una parte di istituzioni moderne ed efficienti, e per l’altra di uno Stato invadente che programma tutto e che possiede banche ed aziende industriali. Non dobbiamo chiederci cosa succederebbe: quest’esperimento è già stato tentato in Germania dal dopoguerra al crollo del muro di Berlino. E il risultato è esemplificato dalla produzione di auto: da una parte Volkswagen e BMW, dall’altra le Trabant, oggetto di scherno e barzellette in tutto l’ex blocco sovietico.

Pensiamo: cosa sarebbe l’Italia se avesse tutto in funzione? Probabilmente somiglierebbe ad una versione più agiata del Paese del dopoguerra, o ad una Germania con condizioni meteorologiche migliori.

Solo che ci vuole uno Stato che la smetta di controllare oltre le metà delle risorse, una burocrazia snella ed efficiente ed un abbassamento del cuneo fiscale operato attraverso la riduzione della spesa statale.

Per abbattere il debito, poi, si può realizzare una parte del patrimonio dello Stato, sia immobiliare che mobiliare, perché lo Stato non deve fare l’imprenditore. I fondi così recuperati, però, devono essere utilizzati esclusivamente per la riduzione del debito, e non per il finanziamento di spesa corrente né di altro tipo. Abbiamo passato il limite della curva di Laffer, e a questo livello non c’è impiego di denaro pubblico che superi in efficienza una riduzione delle tasse, e l’interesse sul debito fa parte della spesa e va ridotto.

A quel punto potremo, dopo un lavoro di almeno un decennio, vivere in una villa di lusso con infrastrutture efficienti, e chi vive negli appartamenti ricomincerà a prenderci come modello e ad investire qui. Nel frattempo però inizieremmo a vivere meglio relativamente presto, dato che gli effetti benefici della riduzione delle tasse sul lavoro si manifesterebbero in maggior reddito disponibile che serve da benzina per l’espansione economica.


Bisognerebbe che i politici tenessero conto di questo prima di varare programmi di spesa destinati al fallimento da una pressione fiscale che induce i beneficiari di questi interventi ad investire altrove. E magari a venire a visitare per le vacanze le rovine del nostro castello, dove naturalmente non abiterebbero mai.

Wednesday 29 May 2013

Recuperare i ‘perdenti della globalizzazione’: un imperativo etico, oltreché politico, indispensabile per una crescita sostenibile dell’Occidente


Qualcuno ha giustamente notato che un mondo globalizzato ed interconnesso sta diventando un’economia delle superstar. Questo significa che chi ha un talento di alto livello e/o un’idea migliore di tutte le altre trova adesso un potenziale mercato che prima non avrebbe potuto accedere se non con grande difficoltà.

L’esempio più immediato è un’app per smartphone: chi programma la migliore app in assoluto per, diciamo, prevedere il tempo, ha un potenziale mercato di miliardi di utilizzatori, e potrà guadagnare molto grazie alle pubblicità che riesce ad attirare. Naturalmente se lo stesso programmatore avesse creato un codice di valore comparabile anche un paio di decenni fa, non avrebbe potuto che aver accesso ad una frazione della clientela potenziale, e di converso dei guadagni.

Il rovescio della medaglia è che chi arriva anche solo secondo rischia di non avere nessuna fetta della torta a disposizione, dato che questa viene tutta accaparrata dal vincitore; figuriamoci poi chi arriva più in basso.

Lo stesso, anche se in modo meno pronunciato, vale ovviamente anche per altri tipi di talento, tra cui ad esempio quello manageriale e quello medico: un ottimo dirigente o un chirurgo eccezionale hanno oggi la possibilità di essere conosciuti in tutto il mondo in modo relativamente facile, e di spedire il loro curriculum ai quattro angoli del globo senza alcuna spesa grazie alla posta elettronica. Ammesso che conoscano la lingua locale, ma in alcuni casi basta addirittura parlare la lingua franca del mondo, ovvero l’inglese, essi possono trasferirsi dovunque vogliano per avere il massimo ritorno sulle proprie capacità.

Quindi la globalizzazione conviene molto a pochi: cosa succede agli altri? Chi ha talento e conoscenze medie in passato sarebbe comunque riuscito a guadagnarsi da vivere, ma oggi deve fare i conti con una concorrenza agguerritissima formata da lavoratori dei Paesi emergenti disposti a lavorare per una frazione di quello che richiederebbero un italiano o un francese. Se fino ad ora, oltretutto, questo fenomeno ha interessato soprattutto lavori a bassa specializzazione, adesso i laureati dei paesi emergenti stanno imparando anche alcune professioni di più alta gamma, come i servizi contabili e quelli legali: anche professionisti che fino a pochi anni fa erano relativamente al sicuro stanno quindi diventando a rischio.

I Paesi occidentali, quindi, stanno andando verso un mondo a due velocità: da una parte sempre meno persone che, grazie al proprio talento, diventeranno sempre più ricche, dall’altra un crescente numero di ‘perdenti’.

Alcuni ultra-liberisti potrebbero pensare che questo sia giusto: alla fine in questo modo il talento varrà progressivamente più delle parentele o della classe sociale di partenza, e alla fine chi merita meno avrà meno.

La tentazione di cadere in questo pensiero potrebbe però risultare fatale soprattutto alle economie occidentali, abituate ad un alto tenore di vita e ad istituzioni rappresentative.

La soluzione proposta in alcuni ambienti vicini a Lorsignori è però anche peggiore: innalzare barriere protezionistiche per mantenere i livelli raggiunti, infischiandosene del mondo. Questa soluzione è particolarmente dannosa in quanto porta ad una progressiva perdita di competitività di tutto il sistema chiuso, a danno soprattutto della creazione di ricchezza. Mantenere livelli di reddito non giustificati dalla capacità di produrre ricchezza, infatti, significa togliere a chi può produrla la possibilità di farlo, almeno in parte. Questa è la situazione che molti Paesi europei stanno vivendo adesso. Il meccanismo ricorda quello della Grande Muraglia, eretta in Cina per proteggersi contro le invasioni dei Mongoli con grande dispendio di mezzi e mantenuta con gran numero di guardie. Com’è noto i Mongoli aggirarono la muraglia e conquistarono la Cina.

Esiste dunque una soluzione diversa?

La risposta è sì, e non dobbiamo neanche guardare troppo lontano dall’Italia per trovarla.

Nelle decadi passate sia la Germania che, forse ancora di più, i Paesi scandinavi, hanno infatti attuato riforme strutturali che hanno permesso loro, nonostante la crisi, di continuare e crescere e a creare posti di lavoro. Questa formula ha dovuto superare l’idea di ‘tutto a tutti in cambio di niente’ per spostarsi verso programmi di sostegno al lavoratore invece che all’impresa e di educazione continua che mantenga le competenze ‘a prova di cinese’.

Il sistema attuale in Italia per chi perde il lavoro, ad esempio, è basato sulla Cassa Integrazione: questa essenzialmente protegge il posto di lavoro, e non il lavoratore, di imprese ormai non più competitive che spesso, infatti, finiscono per chiudere lo stesso dopo agonie più o meno lunghe. Chi guadagna da situazioni del genere sono imprenditori spesso incapaci di leggere il mercato, a scapito sia dei loro impiegati che della competitività del sistema, che invece di impiegare risorse per diventare più competitivo le spreca per mantenere una situazione esistente che, in periodo di cambiamenti epocali, non può essere difesa a lungo.

Molto meglio quindi concentrarsi sul lavoratore, come, anche se in modi diversi, fanno Germania, Svezia e Danimarca. Qui chi perde il lavoro riceve un reddito sostitutivo condizionato alla frequenza di corsi di riqualificazione il cui successo è tenuto sotto stretto controllo. In questo senso il lavoratore riceve un aggiornamento che, partendo dalle proprie capacità, le espande e le rende adatte a resistere alla competizione globale.

Chi chiede dignità non può volere qualcosa per nulla o accettare di essere pagato più di quello che produce. Può però chiedere di essere aiutato a guadagnare il giusto frutto del proprio lavoro, il che si fa rendendo il lavoro più produttivo.

Questo sistema, che ha dimostrato di funzionare bene, ha bisogno ovviamente anche di un ambiente di certezza e rapidità della giustizia civile e buon funzionamento della macchina burocratica: quindi mettere a posto questi aspetti per primi è importante per il successo di qualsiasi iniziativa.
E’ anche imperativo per tutti, anche coloro che hanno al momento capacità al passo con i tempi, mantenere un livello di competenze sempre all’altezza dei migliori standard, a pena di perdere molto del proprio reddito in tempi relativamente brevi.


L’alternativa è doversi rassegnare: nonostante grandi e costose muraglie, il barbaro passerà. Siamo ancora in tempo per evitarlo; pensiamoci.

Saturday 16 March 2013

LA TORTA E LE FETTE: Mercantilismo, redistribuzione e teorie del complotto




Pochi forse ricordano che a partire dal Rinascimento e fino almeno alla Rivoluzione Francese gli Stati misero in atto una politica cosiddetta ‘mercantilistica’.

Le monarchie dell’Europa post feudale erano convinte che per creare uno Stato potente bisognasse accumulare molto oro, e che questo si potesse fare controllando una quota sempre più grande del commercio mondiale.

Essenzialmente, come fa notare Ian Bremmer, uno dei massimi esperti mondiali di relazioni internazionali, questo poggiava su due ipotesi sbagliate:

La prima ipotesi era che la ricchezza corrispondesse alla valuta (che allora era aurea) e che bastasse quindi incrementare l’offerta di valuta per aumentare la ricchezza. Se questo sembra qualcosa di sentito recentemente è perché lo è, e ce ne siamo già abbondantemente occupati. Facciamo solo notare a corollario adatto all’epoca di massima applicazione del mercantilismo che la Spagna iniziò ad importare quantità impressionanti di oro dalle Americhe e che la conseguenza diretta fu che per un periodo l’argento valeva più dell’oro. Se qualcuno pensasse che questo fosse dovuto all’inflazione avrebbe ragione.

La seconda ipotesi era che il commercio internazionale fosse fisso, e che quindi per catturarne una quota l’unico modo fosse sottrarla ad altri. Questo portò tra l’altro a vari conflitti armati (per cui le relazioni internazionali di quell’epoca e di quella immediatamente successiva vengono talvolta ricordate come ‘diplomazia delle cannoniere’), oltre che alla creazione di vari monopoli concessi dai vari monarchi a gruppi a capitale pubblico, privato o misto. Alcuni esempi per tutti le celeberrime Compagnie delle Indie Orientali ed Occidentali. Che poi i monopoli suddetti abbiano portato ad una corruzione molto estesa è un fatto storico inoppugnabile.

Altro fatto storico inoppugnabile è che invece con l’apertura dei commerci i volumi scambiati aumentano e che solitamente tutti i Paesi che ne prendono parte diventano più ricchi. Lo sappiamo non dal tempo di Adam Smith, ma da quello di Senofonte, che purtroppo pochi adesso leggono al di fuori dei Licei Classici, e anche in questi istituti si rifugge dai testi economici. Altro discorso è che la crescita della ricchezza non sia ugualmente distribuita, ma dipende, in poche parole, dalla capacità di fare cose che il mondo vuole comprare. E’ essenzialmente questo il motivo per cui alcune imprese italiane e francesi del settore auto patiscono (non fanno auto che il mondo vuole), mentre la Ferrari non ha certo problemi a pagare gli operai, che con la loro alta artigianalità sono infatti una delle fonti di vantaggio competitivo della casa di Maranello (Solow docet).

Ma concentriamoci sull’idea che l’economia, come il commercio, sia una grandezza fissa. Su quest’ipotesi, più o meno consapevolmente, poggiano moltissime idee di quelli che ormai da tempo abbiamo battezzato Lorsignori.

Lorsignori partono da questa idea quando vorrebbero convincerci che mandare in pensione i vecchi crea posti di lavoro per i giovani, quando invece è la maggior ricchezza prodotta che crea la domanda che sostiene il lavoro. Anche di questo ci siamo già occupati in un post precedente: se fosse vero quello che sostengono Lorsignori, nessun lavoro produrrebbe alcun valore; a parte il fatto che questo è apertamente un discorso senza senso, anche lo stesso Marx parte nel Capitale dall’idea che lavoro sia uguale a valore. La stessa ipotesi di fondo, poi, sottostà all’idea che si debbano introdurre barriere commerciali per proteggere questa o quella categoria, se non addirittura ‘la base industriale’. A parte il fatto che la base produttiva si protegge innovando e specializzandosi per, appunto come sopra, ‘fare cose che il mondo vuole’, anche la stessa idea di proteggere un’industria crea una situazione per cui i cittadini di uno Stato protezionista pagano per mantenere un privilegio ad una parte di aziende che così non sono neanche spinte a migliorare, rendendo sempre maggiore la quota pagata da tutti. In Italia purtroppo sappiamo che situazioni in cui molti pagano i privilegi di pochi sono così diffuse da aver minato le basi di una sana e prudente gestione anche dello Stato stesso.

Abbiamo visto che la torta (l’economia nazionale ed internazionale, ma anche il commercio mondiale) NON è fissa e che a seconda di come si fanno le fette questa può diventare più o meno grande.

L’applicazione più interessante del principio della torta e delle fette è comunque quella delle varie teorie del complotto che si alimentano spesso dei peggiori pregiudizi.

L’idea è più o meno che ci sia un gruppo di persone, vicino a grandi aziende e banche d’affari multinazionali, che tira le fila dell’economia e della politica mondiale. Ultimamente poi si dice che questo gruppo (generalmente possiamo chiamarlo anche ‘la cupola dei ricchi’) abbia creato una serie di strumenti, tra cui l’Euro e l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, per condurre una sorta di lotta di classe post-marxista a danno degli altri, poveri ma soprattutto classe media. Questi strumenti porterebbero al progressivo impoverimento della classe media per permettere ai ‘ricchi’ di catturare una percentuale maggiore della ricchezza mondiale.
Perché quest’idea funzioni bisogna che una di due condizioni si verifichi: o la torta è appunto fissa o almeno la diminuzione della classe media non ne influenza la grandezza presente, ma soprattutto futura. Infatti Lorsignori sostengono che ‘i ricchi’ sono organizzatissimi e guardano molto lontano.

Abbiamo già visto che la torta non è fissa, quindi non ci resta che vedere se la classe media abbia o meno impatto sulla crescita economica.

Ebbene vari studi, tra i tanti quelli del Dartmouth College e di Yale, dimostrano invece che la classe media non sia conseguenza, ma motore stesso della crescita economica, in particolare nei Paesi sviluppati. Ovviamente poi la stessa classe media è la maggior produttrice di risparmio e consumatrice di prodotti ad alto valore aggiunto come quelli elettronici, per cui sia le banche che la multinazionali hanno interesse a che esista.

L’ipotesi della ‘cupola dei ricchi’, per reggere, avrebbe essenzialmente bisogno che questa stessa cupola non fosse in grado di effettuare calcoli di valore temporale su progetti, ovvero prevedere flussi di cassa o di ricchezza futuri e scontarli a valore attuale. Peccato che i vertici di banche d’affari e multinazionali facciano questo di mestiere, come saprebbero anche Lorsignori se avessero mai lavorato in una di queste istituzioni o almeno avuto studi adeguati.

A corollario facciamo anche notare che una politica di redistribuzione del reddito attraverso la fiscalità, oltre a prestarsi a manipolazioni più o meno corruttive, farebbe diminuire la torta in quanto tutti i Governi che, a livello mondiale, hanno promesso di tassare i ricchi, quando hanno alzato le tasse lo hanno fatto sulla classe media. Inoltre la logica imporrebbe come mezzo di equità non una redistribuzione (che per definizione avviene ex post), ma una vera meritocrazia che renda possibile il miglioramento della condizione sociale dei migliori. Il motivo per cui questo non viene fatto è che ciò implicherebbe per forza di cose il peggioramento della condizione sociale dei peggiori, e siccome spesso gli amici degli amici di certi politicanti hanno posizioni non giustificate dal loro merito Lorsignori non gradiscono.

Infine per la bellissima metafora della torta non ringrazierò mai abbastanza il mio vecchio Professore dell’Università di Firenze Carlo Vallini, mente eccelsa con irresistibile senso dell’umorismo di marca tipicamente toscana.

Saturday 9 March 2013

Ce lo chiede l’Europa: la coscienza sporca dei politici del Sud Europa.




Quante volte abbiamo sentito ripetere il noto mantra: ‘ce lo chiede l’Europa?’

Anche prima della crisi i politici italiani lo hanno ripetuto allo sfinimento, soprattutto per implementare misure di aumento della pressione fiscale.

Lo stesso, ma con maggior frequenza, abbiamo sentito ripetere in periodo di crisi. Una comunicazione simile è stata diffusa da tutti i politici di Paesi incapaci o poco pronti a fare riforme strutturali come scusa per aumentare la pressione fiscale.

Ma cosa chiede l’Europa davvero a chi è in difficoltà?

Intanto non risultano vere e proprie imposizioni, quanto piuttosto indicazioni basate sull’esperienza di comportamenti che hanno portato ad effetti positivi in casi precedenti. Per lo più chi consiglia austerità non pensa ad un aumento delle tasse, ma ad una riduzione non sporadica della spesa e a riforme strutturali che, rendendo meno onerose in termini di tempo e denaro le iniziative imprenditoriali, richiamino investimenti interni ed esteri dando slancio all’economia.

Questo nella piena consapevolezza che le tasse deprimono l’economia al punto che le entrate dello Stato vanno a diminuire (curva di Laffer o riduzione della domanda aggregata dicono la stessa cosa), ma anche i tagli della spesa hanno nel breve termine effetto di contrazione. Questo effetto è però di gran lunga inferiore a quello di nuove tasse, come ampiamente dimostrato da studi dell’Università di Harvard condotti principalmente dall’italiano Alberto Alesina. Da qui le riforme che aiutino a compensare gli effetti recessivi della politica fiscale. Eventuali dismissioni di patrimonio statale possono avere il doppio effetto di aiutare a ridurre gli impatti restrittivi di cui sopra e, nella migliore delle ipotesi, mettere a maggior frutto le potenzialità che lo Stato, per mancanza di mezzi o di competenze, non è in grado di sfruttare.

Perché dunque si è scelto di aumentare la pressione fiscale, pur conoscendone gli effetti recessivi?

Perché ridurre gli ambiti dello Stato significa ridurre il potere dei politici di distribuire commesse, dirigenze e varie prebende a coloro che li sostengono con i loro voti o con le loro donazioni.

Allo stesso modo rendere efficiente il sistema economico significa rimuovere le rendite di posizione delle quali si alimentano altri sostenitori degli stessi politici.

Quindi se i politici facessero quello che ‘ci chiede l’Europa’ (ma per davvero) perderebbero l’appoggio politico e finanziario su cui poggia il loro potere, con solo vantaggio per i cittadini comuni.

Va da sé che per vincere le guerre (e non le battaglie) si tagliano i rifornimenti al nemico, e i politici incapaci lo sanno benissimo.

L’esempio più tragico di una situazione simile è la Grecia, in cui i politici si sono rifiutati per anni di diminuire prebende e sprechi, preferendo aumentare le tasse e precipitando il Paese in una spirale recessiva da cui è difficile uscire. Solo molto recentemente, messi con le spalle al muro e quando forse era già troppo tardi, hanno iniziato ad agire con criteri meno dannosi.

In altre parole coloro che impongono livelli maggiori di tassazione dicendo ‘ce lo chiede l’Europa’ fanno danno due volte: una perché non fanno quello che viene consigliato per il bene di tutti pur di mantenere il potere per loro e per gli amici dei loro amici, l’altra perché gli elettori, a forza di sentirsi ripetere il mantra, hanno finito per identificare l’Europa con una politica di rigore principalmente basata su nuove tasse, con il bel risultato di far guadagnare voti a chiunque tuoni contro l’Europa, magari promettendo mari e monti in caso di aumento del perimetro dello Stato, inclusa la politica monetaria, senza pensare che le conseguenze di un’uscita dall’Euro e di un aumento della spesa di Stato farebbero impallidire quanto visto finora.

Monday 4 February 2013

LUCA PACIOLI E IL BILANCIO DELLO STATO



Dalla terra di Luca Pacioli, considerato il padre della Partita Doppia, non può non levarsi un grido di dolore per ciò che ultimamente si legge ed ascolta in campagna elettorale. Gli spin doctors di tutto lo spettro politico, con pochissime eccezioni, paiono infatti intenti a far credere al popolo votante (o più precisamente votando, dato che ancora non siamo alle elezioni) che Stati Patrimoniali e Conti Economici siano entità separate e senza connessione alcuna. Errori che farebbero bocciare un candidato all'esame di Ragioneria di qualsiasi facoltà di Economia, infatti, vengono presentati come verità incontrovertibili.

In particolare è uno strafalcione sulle consistenze del patrimonio dello Stato a far rigirare nella tomba il povero Fra’ Pacioli (che tra l’altro insegnò anche matematica all’incomparabile Leonardo). I turlupinatori della pubblica opinione, in stile tipico politichese, presentano infatti una premessa vera ed una parzialmente vera, facendo risultare dal sillogismo una conclusione inerentemente errata.

Prima premessa: ha poco senso rapportare il Debito (grandezza di stock che appartiene allo Stato Patrimoniale) con il PIL (assimilabile all’Utile di un’azienda, che invece è un flusso e appartiene al Conto Economico).

Seconda premessa: se quindi il patrimonio dello Stato (le Attività dello Stato Patrimoniale) sono sufficientemente superiori al debito (le passività) la situazione è sotto controllo.

Conclusione: l’Italia non ha un problema di debito.

Peccato che manchi un pezzo dalla seconda premessa. L’effetto di questa mancanza risulta tragicamente evidente guardando proprio quanto incidono gli interessi sul debito pubblico come percentuale delle entrate dello Stato.

Sappiamo bene che la spesa per interessi sul PIL in Italia è alta. Negli anni 70 copriva circa un quarto delle entrate. Dopo l’entrata nell’Euro la percentuale è scesa progressivamente, per arrivare nell’intorno del 10%. La Germania però paga meno del 6% (dati Banca Mondiale del 2009-10). In  Italia nel 2011 il Governo spendeva circa il 49% del PIL, in Germania il 43.7% (dati dall’Index of Economic Freedom, Heritage Foundation e Wall Street Journal). La differenza però non tiene conto  del fatto, alquanto noto, che il PIL include una stima dell’economia sommersa, e che quella italiana è ben superiore a quella tedesca.

Perché dunque questa differenza di trattamento? Dobbiamo credere ai populisti e concludere che c’è un complotto dei tedeschi con l’elmo a punta per affossare l’Italia così da comprarne i pezzi a poco prezzo?

Non proprio. Come chiunque che sia in possesso di basi decenti di analisi di bilancio non può ignorare, infatti, situazioni simili a questa esistono in moltissime aziende. Queste occorrono solitamente quando un’azienda finanzia con debito a breve termine attività di lungo. Il debito pubblico ha una durata media intorno ai 7 anni, anche se si sta cercando di allungarla.

In sostanza il pezzo che manca alla seconda premessa è che attività e passività devono avere durate comparabili: non si finanziano attività a lungo termine con debito a breve. Inoltre manca un altro pezzo importantissimo: non ci si indebita per spendere. Se lo Stato avesse seguito la regola di buona gestione familiare secondo cui non si spende più di quel che si guadagna se non per investire (e avesse fatto a meno di farlo durante le espansioni) non avremmo i problemi che abbiamo e Keynes (ma non i keynesiani) sarebbe stato seguito alla lettera.

Va da se’ poi che per evitare di spendere più di quanto lo Stato incassa, questo ha di fronte due strade: alzare le entrate o abbassare la spesa.

Dovrebbe essere chiaro a questo punto che alzare le tasse non è una buona idea, e che è di molto preferibile abbassare la spesa. Se poi vogliamo un’espansione economica, questa differenza deve andare a ridurre un fardello di tasse tra i più alti in assoluto.

Il modo per abbassare la spesa per interessi è poi realizzare una parte delle attività dello Stato e dedicare l’incasso al pagamento del debito a breve termine.

Questo, insieme a non spendere più di quanto si incassa, metterebbero a posto i conti dello Stato in maniera relativamente rapida e migliore delle alternative in termini di sacrifici per gli italiani.