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Thursday 15 December 2011

L’Euro e la deflazione di Weimar: perché gli sforzi per riconquistare la fiducia dei mercati nell’Euro per ora sono falliti


E’ ormai chiaro a molti analisti che il motivo per cui una soluzione vera alla crisi dell’Euro non è stata trovata finora è l’incubo tedesco di una ripetizione dell’iperinflazione che distrusse la Repubblica di Weimar e consegnò lo Stato ai Nazisti.
Sembra questa l’unica spiegazione possibile per un Paese esportatore che forza una stretta fiscale nei suoi principali mercati di sbocco: irrazionalità che confina con la follia.
Non è la ripetizione dell’iperinflazione della Repubblica di Weimar che i tedeschi dovrebbero temere, ma la forte deflazione che ebbe la stessa Repubblica.
Se i creditori sono preoccupati per le difficoltà degli Stati europei di ripagare il loro debito non è perché il debito è alo in se’, ma perché è alto in proporzione al PIL. L’attenzione di investitori razionali nei mercati del credito è perciò sulla crescita quanto sul debito.
Correggere uno squilibrio del rapporto deficit /PIL può essere paragonato al tiro ad un bersaglio mobile, con la differenza che il tiro può anche muovere il bersaglio. Il problema di usare solo, o prevalentemente, misure di austerità è che i benefici sul debito possono essere cancellati dal danno al PIL. Se lo Stato aumento le tasse, questo stesso atto può diminuire la crescita tanto da generare entrate fiscali più basse di quelle che lo Stato avrebbe avuto senza aumentare le tasse. In questo modo può essere iniziata quella che gli economisti chiamano un spirale di debito. Una volta iniziata, uscire da una spirale di debito può essere molto difficile.
Li misure adottato in Grecia fino ad ora sono proprio un esempio di spirale di debito. Il Governo impone solo, o prevalentemente, nuove tasse con poche riforme strutturali o veri tagli alla spesa dello Stato. Questo porta ad una contrazione economica che finisce per deprimere le entrate fiscali. Ripetere daccapo. Alla fine, questo ha creato forte deflazione in Grecia.
Se l’Italia farà lo stesso il problema si presenterà su scala molto più grande. Ciò potrebbe portare a fallimenti multipli di Stati, banche ed aziende in tutta Europa e nel mondo e, come ultimo atto, stampa di moneta ed iperinflazione.
Questa, signori tedeschi, è la ricetta giusta pe runa ripetizione dei problemi di Weimar, non stampare moneta adesso.
Il motivo per cui stampare moneta porterebbe solo ad un modesto rialzo dell’inflazione è molto semplice: i meccanismi di trasmissione del credito non funzionano a dovere perché il sistema bancario non sta rispondendo. Se questo non fosse il caso, le massicce iniezioni di liquidità nel sistema bancario da parte della BCE avrebbero già creato inflazione ben oltre il 5%. In linguaggio da economisti, la velocità della moneta è molto bassa. Se dovesse accelerare di nuovo a livelli normali con il rischio di creare inflazione, sarebbe relativamente semplice per la Banca Centrale limitare di nuovo la liquidità.  Se non è chiaro come farlo a Francoforte, signori dell’Eurotower, potete mandare un’e mail al vostro amico in Toscana. A pensarci bene potreste voler venire di persona: fate voi.
Stampare moneta, quindi, non sarebbe una soluzione in se’. Altre misure sono necessarie. Progressi sono stati fatti per aiutare il sistema bancario a funzionare di nuovo (a dimostrazione che Draghi sa già cosa fare, anche se potrebbe voler venire in Toscana lo stesso per un buon pranzo) ma si deve fare di più sul fronte della crescita, e questo è lavoro dei politici.
Bisogna notare innanzitutto che ci sono studi (ad esempio di Alberto Alesina di Harvard) che mostrano come diminuire la spesa dello Stato è un modo molto migliore per riequilibrare il rapporto debito/PIL di quanto non lo sia alzare le tasse. Quindi le misure fiscali dovrebbero andare molto più nella direzione di tagli e meno nell’aumento delle tasse. Per ora è stato il contrario in Europa, eccetto forse in Gran Bretagna. L’Italia ha annunciato una serie di liberalizzazioni e vendite di asset governativi anche locali ma non ha ancora fatto niente di concreto. Vedremo se l’economista Mario Monti riuscirà dove finora tutti hanno fallito.
Con le risorse così rese disponibili è necessario non ascoltare suggerimenti di incrementare la spesa statale ma di utilizzarle per ridurre il debito. Coloro che suggeriscono interventi keynesiani non considerano che questi non funzionano se lo Stato può finanziarsi solo a tassi punitivi. D’altra parte lo Stato deve ridurre la burocrazia per incoraggiare investimenti privati in necessarie infrastrutture. Tutto quello che lo Stato deve fare è vendere le concessioni: il libero mercato può fare il resto. Le ferrovie europee sono state costruite così nel diciannovesimo secolo, quindi perché non dovrebbe funzionare ancora?
La combinazione di questi interventi avrebbe forte effetto di stimolo, specialmente se venissero anche adottate azioni per aumentare la partecipazione alla forza lavoro. Questo significa mandare la gente in pensione più tardi (come stanno facendo) ed incoraggiare l’occupazione di donne e giovani. Se queste misure avranno successo nell’aumentare la partecipazione alla forza lavoro, la crescita trend si alzerà.
Allo stesso tempo , però, è anche necessario ristabilire il funzionamento dei canali di trasmissione del credito.
Al momento questi non funzionano perché le banche preferiscono mantenere liquidità invece di prestare ad altre banche. Questo è dovuto ad incertezze riguardo gli haircut sul debito sovrano (che si stanno eliminando in Europa grazie soprattutto all’intervento francese) e sulle riserve di capitale. Se l’Europa vuole evitare una stretta creditizia deve chiarificare quali saranno le riserve necessarie e quando saranno introdotte. L’incertezza creata dai politici in merito condiziona negativamente gli sforzi che l’ottima BCE fa per introdurre misure di liquidità.
Il giornalista italiano Beppe Severgnini ha scritto sul Financial Times chiedendo ai tedeschi di smettere di essere irrazionali sull’inflazione, notando correttamente che quando i mediterranei chiedono ai tedeschi di smettere di agire in modo emotivo si contraddicono alcuni cliché.
Il Cancelliere Merkel ha il dovere di spiegare le conseguenze di austerità senza crescita (ovvero la deflazione) ai suoi elettori, altrimenti potrebbe essere rieletta solo per coordinare la rottura dell’Unione Europea (con corollario di iperinflazione).
Signori tedeschi: nessuno vuole i vostri soldi. Dovete solo essere ragionevoli. Vediamo se finalmente capiscono!

Monday 28 November 2011

Reductio ad absurdum: perché l’Euro non sparirà


Molti continuano a chiedersi se l’Euro può effettivamente cessare di esistere. Premesso che tutto è possibile, proviamo a dimostrare per assurdo perché uno sfaldamento della Moneta Unica è almeno poco probabile.
Premettiamo che, data la cattivissima gestione della crisi da parte francese, ma soprattutto tedesca, il costo di tenere insieme l’Euro è aumentato, ovviamente in modo esponenziale (come faccia la Merkel con un PhD in fisica a non averlo previsto è un mistero). Data infatti la storia pregressa, sono stati reintrodotti all’interno dell’Unione Monetaria prima il rischio di credito (non è più ovvio che uno Stato non possa fallire: si veda post precedente), e poi il rischio di cambio. Quest’ultimo punto richiede forse un’ulteriore spiegazione. Quando Francia e Germania, in una delle conferenze stampa che hanno seguito uno dei loro tanti (troppi?) incontri bilaterali hanno dichiarato che il restare o meno nell’Euro stava alla Grecia, hanno effettivamente ammesso la possibilità di uscirne. I mercati, logicamente, non potevano non cominciare a prezzare la possibilità di uscita dall’Euro, intesa come percentuale di svalutazione in caso di uscita moltiplicato per la probabilità che il fatto avvenga. La probabile svalutazione monetaria si aggira, secondo molti, intorno al 30-40%. Anche una probabilità di uscita non grandissima, diciamo un 10%, giustifica quindi un aumento degli spread del 3-4%: un’enormità.
 Tutti gli spread da allora sono quindi aumentati notevolmente. In particolare sono aumentati quelli a breve più di quelli a lungo termine. Ovvero il costo di finanziamento di una Stato di cui si percepisce la possibile uscita è adesso maggiore a 2 anni che a 10. Anche se questo non può essere provato, non è escluso che il maggior costo sia da imputarsi appunto al possibile tasso di cambio di una nuova (vecchia) valuta, che da una parte è più probabile nel breve termine che nel lungo termine (se l’Euro sopravvive i prossimi 2 anni è probabile che sopravviva anche i successivi 8) e dall’altra, in ogni caso, avrebbe effetti soprattutto nel breve termine. Il termine sarebbe quello della durata media del debito, che nella periferia dell’Eurozona è appunto intorno a 2-3 anni.
Dato quanto sopra la crisi dell’Euro sta assomigliando sempre di più ad una crisi di Paesi emergenti che avevano deciso di legare la loro valuta ad una più forte. Ci sono molti esempi di queste crisi in Sud America nei decenni passati: in questi casi i Paesi legavano la loro valuta più tipicamente al Dollaro Americano. Ci sono ovviamente differenze tra questi casi e quello dell’Euro, in quanto in Sud America le valute sono sempre rimaste separate (un dollaro era un dollaro ed un peso era un peso). I rischi coinvolto sono però simili: appunto rischio di credito e rischio di cambio dello Stato più debole.
Utilizzando i precedenti  appena citati, vediamo dunque come si svolgerebbe un’eventuale rottura. Prima che a qualcuno prenda paura: questo scenario è di gran lunga il meno probabile, e leggendo fino in fondo si vedrà perché.
La popolazione si sveglia una mattina, quasi sempre di Domenica dato che le banche sono chiuse, ed apprende che da oggi un euro è diventato X nuove Lire, Dracme etc. Fin qui ovviamente l’immaginazione di molti si sarà già spinta. La maggior parte delle persone non avrà però pensato alle conseguenze inevitabili, a meno che altri provvedimenti vengano presi contestualmente. Lunedì mattina si creano code agli sportelli delle banche perché tutti vogliono ritirare i loro soldi e/o cambiarli in un’altra valuta (o semplicemente vengono intasati i server degli istituti di credito da operazioni di bonifico su estero). Infatti si penserebbe, con buone ragioni, che la nuova (vecchia) moneta si svaluterebbe rapidamente contro altre monete più forti. Questo porterebbe con ogni probabilità al collasso del sistema bancario prima ancora che lo facessero le partite di debito denominate in moneta forte. L’unico modo per evitare il collasso sarebbe annunciare, contestualmente all’introduzione della nuova (vecchia) valuta limiti di ritiro dai conti correnti e, soprattutto, limiti all’espatrio di capitali ed al libero movimento di merci e persone oltre confine. Questi limiti sarebbero in contrasto con i trattati costitutivi dell’Unione Europea. Un collasso dell’Euro sarebbe quindi inevitabilmente legato alla disgregazione, o almeno alla sospensione con prospettive di forte ridimensionamento, dell’Unione stessa. Tutto questo probabilmente non salverebbe le banche, che avrebbero bisogno di iniezioni di capitale massicce dallo Stato.
Prima di pensare che questo sarebbe auspicabile inviterei a considerare che le conseguenze sarebbero indesiderabili per tutti, in particolare per i Paesi esportatori, tra cui anche l’Italia. Chi ha più da perdere da un ridimensionamento dell’Unione è ovviamente la Germania, l’esportatore più forte soprattutto intra-Eurozona, che subirebbe il doppio effetto di una rivalutazione drastica della propria valuta e di nuovi limiti al libero movimento di merci. Già questo spiega perché un collasso dell’Euro è improbabile: costerebbe alla Germania molto più di mantenerlo in piedi (vedi ‘la Germania e l’apprendista stregone’).
Le conseguenze di una rottura, però, non si limiterebbero a quelle appena descritte. Quelle sulle aziende sarebbero anche più pesanti. Infatti molte delle partite commerciali anche di piccole imprese sono ormai internazionali. Ad esempio un’azienda spagnola che deve pagare un fornitore francese in Euro vedrebbe il suo debito aumentare per effetto della svalutazione della Peseta contro il Franco. Le interconnessioni sono tante e tali che una serie di fallimenti a catena sarebbero probabili. Ovviamente questo porterebbe ad un aumento esponenziale della disoccupazione in tutta Europa. Alla fine l’unico modo per evitare una serie di fallimenti a catena negli Stati che lasciassero l’Euro sarebbe stampare moneta, il che porterebbe ad una spirale inflattiva che finirebbe per non riuscire a contenere significativamente i fallimenti ma creerebbe ancora maggior distruzione di ricchezza.
Dato quanto sopra, quindi, è molto improbabile che una rottura dell’Euro venga ammessa, non ultimo perché danneggerebbe di più proprio chi oggi si oppone a misure monetarie drastiche, ovvero la Germania.
A questo punto viene da chiedersi se i politici tedeschi sappiano tutto questo. La risposta, con ogni probabilità, è che lo sanno, ma forse pensano di poter arrivare alle elezioni del 2012 prima di mettere in atto l’inevitabile. Dubitiamo che avranno questo lusso, in quanto la funzione esponenziale (sempre lei) sta già esercitando la sua pressione.

Sunday 23 October 2011

L’importanza dell’alternativa: possibili implicazioni della scomparsa del tasso senza rischio (risk-free rate)


In una scelta ponderata si analizzano le varie alternative, poi si sceglie la migliore in confronto alle altre.
In altre parole prendiamo decisioni scegliendo la miglior alternativa disponibile.
Questo semplice processo, oltre ad essere comprensibile perché di buon senso, è alla base delle teorie economiche e, conseguentemente, di quelle di portafoglio. Le scelte di investimento, infatti, sono solitamente ponderate e raramente vengono prese d’impulso.
Il tasso senza rischio rappresenta il tasso che un investitore può aspettarsi di ricevere se non vuol prendere, appunto, alcun rischio. In media esso dovrebbe essere simile al tasso di inflazione. Questo tasso è stato sempre rappresentato dal rendimento delle obbligazioni statali, in quanto si dava per scontato che la probabilità di un fallimento dello Stato fosse così remota da risultare irrisoria.

Il tasso senza rischio diventa così la base delle decisioni di investimento, quello che permette poi di decidere quali rischi prendere a seconda del rendimento atteso. La sua mancanza crea confusione tra chi deve prendere una decisione, e suggerisce a chi non vuole rischi di tenere i soldi (figurativamente) sotto il materasso. Per lo più questo vuol dire mantenere liquidità in conto corrente con rendimenti molto bassi ma con disponibilità immediata di fondi in caso di necessità.

L’effetto è estremizzato in momenti di crisi economica, dato che l’incertezza spinge molti a non volere alcun rischio. La conseguenza, in mancanza di investimenti senza rischio, è quindi un aumento dei fondi nei conti correnti delle banche.
In un periodo di buon funzionamento dell’economia questo si tradurrebbe in maggiori investimenti dato che le banche poi presterebbero i soldi a chi ha intenzione di utilizzarli. Oggi però le banche sono riluttanti a prestare alle imprese per una combinazione di aumento delle sofferenze (imprese che non ripagano i prestiti) e incertezza sulle regole di capitale ( la politica sembra cambiare idea ogni settimana su quanto capitale le banche dovrebbero detenere a garanzia dei prestiti).
Allo stesso tempo anche gli imprenditori sono riluttanti ad aumentare i loro debiti dato che temono che i loro investimenti non vengano remunerati a causa della contrazione economica. Uno degli effetti della crisi è stata proprio la sparizione del tasso senza rischio: il rendimento del debito statale ha iniziato a scontare una parte di rischio di credito (cioè la possibilità che lo Stato non paghi il suo debito). 

Questo effetto, che potrebbe sembrare poco importante, ha invece come abbiamo visto implicazioni fortissime.
Il problema tra l’altro non è limitato all’Italia ne’ all’area Euro. E’ infatti noto che da una parte gli Stati Uniti hanno perduto la AAA nei giudizi delle agenzie di rating, dall’altra anche la Germania comincia a preoccupare e preoccuparsi dato che deve sostenere l’Euro (è di gran lunga il Paese che se ne avvantaggia di più) ma per farlo rischia di dover impiegare risorse tali che chi compra debito tedesco chiederà più interesse proprio per un percepito aumento del rischio di credito (le ultime aste del Bund hanno avuto scarsa domanda e rendimenti sopra il 2%: il segnale è allarmante, anche se potrebbe significare solo una convergenza inevitabile dei rendimenti in vista di una tesoreria comune vista più vicina).

E’ necessario che la politica riparta da qui: ristabilire che il debito dello Stato è effettivamente senza rischio significa creare la certezza di base che può portare al ripristino della fiducia necessario per un’espansione economica.

Al momento purtroppo i leader europei sembrano lontani da questa consapevolezza: infatti da un lato propongono prestiti ponte agli Stati in difficoltà che al massimo possono risolvere crisi di liquidità ma non di solvibilità e dall’altro sembrano spingere per una ricapitalizzazione del sistema bancario. Quest’ultima mossa manda un segnale molto pericoloso: quello che ci si aspetta che alcuni Stati falliscano. Per quale altra eventualità, infatti, si dovrebbero aumentare le riserve? Se in battaglia si rinforzano le seconde linee a scapito delle prime, è razionale pensare che si voglia ripiegare. 

Il nemico in Europa è all’interno, non negli speculatori che, a detta di quei politici che ci hanno portato in questa situazione per incompetenza e mancanza di capacità di risolvere i problemi, sono la causa di tutti i mali. La speculazione è semmai un comodo capro espiatorio da dare in pasto ad elettori che non hanno basi culturali e capacità critiche, ma soprattutto autocritiche (la classe politica l’hanno votata loro) per giungere alla giusta conclusione.

Wednesday 12 October 2011

Grecia e banche: salvataggio o fallimento?

In molti, specialmente nel centro-nord Europa, ritengono che si dovrebbero far fallire gli Stati e le banche perché è immorale salvarle.
Questa potrebbe essere vista come la soluzione giusta, ma è forse la domanda ad essere sbagliata.
Chi poi pensa di poter controllare gli effetti di una bancarotta guardi il grafico: la crisi greca segue temporalmente in modo quasi esatto la cauta di Lehman. Anche se è vero che correlazione non implica rapporto causa-effetto, questa volta almeno la concausa sembra probabile.
La cosa giusta da fare è attuare la soluzione che costi meno alla collettività e poi renderla moralmente accettabile. Proviamo a spiegare con un esempio.
Un anno prima del fallimento Lehman Brothers aveva un valore di mercato di circa 46 miliardi.
Poco prima del fallimento ne valeva appena 6.
Poniamo pure che un salvataggio potesse costare 50 miliardi (stima per eccesso).
Il mancato salvataggio della banca americana, come tutti sanno, ha fatto partire una spirale negativa che si è ripercossa a tutte le controparti: il conto finale è stato di 5.000 miliardi.
In altre parole, per ogni dollaro non speso per salvare Lehman se ne sono dovuti spendere 100 per ripagare i danni causati dal non averlo fatto: se non fosse chiaro in entrambi i casi si parla di soldi della collettività.
Quindi cosa poteva essere fatto diversamente?
Il primo passo è effettuare il salvataggio, dato che come abbiamo visto sarebbe costato molto meno dell’alternativa.
Ovviamente questo significa che lo Stato, essendo quello che aveva immesso il capitale, diventa proprietario dell’azienda, che deve essere risanata e rimessa sul mercato.
Esiste un precedente: in Svezia nei primi anni 90 la situazione era molto simile a quella in cui si ritrovarono gli Stati Uniti nel 2007: bolla immobiliare e credito facile avevano creato panico e perdita di posti di lavoro. Il governo svedese nazionalizzò le banche, le risanò e poi rivendette le quote, ripagando alla fine il costo dell’operazione: secondo alcune stime i contribuenti svedesi avrebbero addirittura guadagnato, e questo senza contare i maggiori costi che avrebbero dovuto affrontare in caso di crack e relativo contagio.
A questo punto occorre però rendere la soluzione moralmente giusta: non si può infatti pretendere che il contribuente metta mano al portafoglio per poi vedere coloro che hanno messo in pericolo la banca continuare a far soldi.
Questo si potrebbe fare incriminando tutti i componenti del top management per bancarotta, effettuando il sequestro conservativo di tutti i loro beni. In modo rapido (massimo un anno) si dovrebbe riuscire a stabilire chi tra gli alti dirigenti è colpevole: per questi si può procedere alla vendita di tutti i loro averi e alla condanna penale. Coloro che dovessero risultare innocenti, invece, avrebbero restituito il controllo del loro patrimonio e sarebbero reintegrati al loro posto di lavoro.
Quanto sopra dovrebbe essere possibile senza neanche cambiare le leggi vigenti: basta applicarle e creare un precedente. In caso non fosse possibile adesso, le leggi andrebbero aggiustate di conseguenza.
Naturalmente quest’operazione è leggermente più complicata per una nazione. Il punto principale è riconoscere che i politici che portano una nazione alla rovina sono colpevoli e vanno condannati come i dirigenti che portano un’azienda alla bancarotta. Per loro quindi messa in stato d’accusa e sequestro preventivo di tutti i beni.
Gli amministratori dello Stato sarebbero quindi per un periodo di tempo coloro che hanno messo i soldi per salvarlo: nel caso della Grecia l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea ed il Fondo Monetario Internazionale.
Questi dovrebbero portare avanti una ricerca su due punti fondamentali: il mancato pagamento delle tasse e le assunzioni in eccesso nella Pubblica Amministrazione.
Ai grandi evasori andrebbe applicato il trattamento dei politici: condanna penale e sequestro dei beni. Gli impiegati in eccesso andrebbero licenziati: hanno comunque ottenuto il loro lavoro in modo poco trasparente e probabilmente con meccanismi di voto di scambio se non di corruzione. Ovviamente i licenziamenti andrebbero effettuati solo dopo un concorso regolare e trasparente che riassuma solo il numero di dipendenti pubblici necessari, per evitare che restino proprio coloro che hanno avuto il lavoro per amicizie e protezioni poco pulite.
Tutto questo però non assolve i cittadini greci per aver votato secondo criteri di convenienza a breve termine causando problemi alle generazioni dei loro figli e nipoti: per questo è giusto che, finché lo Stato non è risanato, venga sospeso il voto. Alla fine anche gli azionisti delle banche salvate, tutt’al più colpevoli di mancata vigilanza, perdono tutto quello che avevano investito.
In futuro, per evitare il ripetersi di crisi sistemiche, è necessario il controllo della liquidità nel sistema, che facilita il debito e la creazione di bolle speculative. Inoltre serve un’autorità che possa operare questi controlli su scala sovranazionale. La BCE è un esempio da seguire in questo senso. Proposte per maggiori ambiti di intervento di Eurostat nel controllare i conti dei singoli stati, per ora bocciate, vanno senz’altro riprese ed approvate.

Friday 16 September 2011

Napoleone, la leadership e i politici di oggi


Napoleone, per gestire al meglio il suo esercito, aveva diviso i soldati lungo due dimensioni.
La prima dimensione era la loro intelligenza, secondo la quale i soldati erano distinti tra intelligenti e stupidi.
La seconda dimensione considerava se il soggetto fosse attivo o pigro.
I soggetti intelligenti e attivi erano utilizzati come ufficiali.
Quelli intelligenti e pigri come generali, in quanto il generale ha bisogno di visione d’insieme e deve saper delegare: non può rischiare di non vedere la foresta per guardare l’albero.
I soggetti stupidi e pigri venivano utilizzati come soldati di fanteria, in quanto adatti a prendere ordini senza porsi domande (in passato si utilizzava l’efficace ma cruda espressione ‘carne da cannone’).
Coloro che erano stupidi e attivi, infine, erano attesi dal plotone d’esecuzione perché pericolosi.
Un corollario del famoso generale corso era che era meglio un generale stupido e pigro di uno attivo ed intelligente, dato cha la pigrizia impediva almeno di fare danni eccessivi. Un buon ufficiale promosso a generale, invece, rischiava di sprecare vite umane e perdere battaglie per la sua irruenza: non tutto si può infatti risolvere con una carica di cavalleria.
Guardando la classe politica della scena internazionale non sembra ci sia un grande sfoggio di capacità di leadership e visione d’insieme.
Potremmo dire che, in generale, i politici di oggi sono attivi; una minoranza, forse, potrebbe essere intelligente.

Friday 9 September 2011

La Germania e l'Apprendista Stregone

Prima di entrare nel merito della mancanza di leadership tedesca, che è poi l’argomento del post, conviene fare una premessa: le mancanze degli altri non scusano l’incapacità della classe politica italiana degli ultimi 40 anni di fermare l’aumento della spesa pubblica e mettere in piedi le riforme necessarie per stimolare la crescita. Il grafico qui sotto proviene da uno studio di Banca d’Italia, organismo non di parte (Francese, M, Pace, A. ‘Il debito pubblico italiano dall’Unità a oggi. Una ricostruzione della serie storica’, Ottobre 2008. Il testo completo è scaricabile gratuitamente qui: http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qef_31/QEF_31.pdf).
Si nota chiaramente come il debito abbia cominciato a salire oltre il 40% del PIL intorno al 1971. In questo periodo c’erano i cosiddetti Governi di Solidarietà Nazionale, a guida democristiana con appoggio esterno del PCI. Dato che i comunisti non potevano avere ministri, probabilmente per l’inquietudine che ciò avrebbe provocato in America, ottennero concessioni di spesa che hanno fatto contenti i loro iscritti a spese però dei loro figli e nipoti, che ora si trovano a pagare il conto (vedi post precedente). E’ stato quindi il consociativismo di marca sessantottina di centro-sinistra, iniziato con Andreotti e continuato con Craxi, ad iniziare una spirale di spesa, debito e mancate riforme che sarebbero costate in termini elettorali di cui oggi viene richiesto il corrispettivo. Speriamo che il pensionamento della generazione della spesa la interrompa.
E’ chiaro dunque che, qualunque cosa si decida a Berlino o Bruxelles, il tempo delle riforme impopolari non è rinviabile, a pena di tassi punitivi che rischiano di mandare fuori controllo le finanze pubbliche. E ora alla Germania.
Quando Goethe scrisse la sua famosa ballata Der Zauberlehrling (L’apprendista stregone) non immaginava forse che la morale in essa contenuta sarebbe stata dimenticata proprio dalla stessa Germania che tanto lo riverisce come poeta.
La Germania sembra oggi intrappolata nella maledizione dell’apprendista stregone, in cui il desiderio del maldestro mago diventa realtà ma il protagonista deve vivere con le conseguenze del suo potere ed affrontare le ire del Maestro al suo ritorno.
I tedeschi infatti hanno creato un sistema di export ad alto valore aggiunto, quindi non facilmente attaccabile da Paesi a basso costo. Questo sistema si è però tradotto in un grande successo anche per motivi di politica monetaria.
Con l’introduzione dell’Euro, infatti, i principali partner commerciali della Germania si sono trovati ad assorbire importazioni tedesche senza il contraltare di un apprezzamento del Marco. In altre parole, e semplificando al massimo, in tempi di valute indipendenti, se un francese comprava un’auto tedesca, comprava allo stesso tempo Marchi e vendeva Franchi con conseguente apprezzamento del Marco che rendeva la prossima auto più costosa in Francia.
Dopo l’introduzione dell’Euro questo non accade più: il francese compra l’auto ma la prossima auto non costa di più in Francia dato che la valuta è la stessa.
Il secondo effetto positivo per la Germania viene da una politica monetaria della Banca Centrale Europea che ha, per ora almeno, assecondato le richieste di Berlino in tutto e per tutto. La BCE ha infatti mandato di controllare l’inflazione, ma all’inizio del millennio (anno 2000 e seguenti) c’era un boom in Paesi periferici (soprattutto Irlanda e Spagna) e i tassi sono rimasti accomodanti, guarda caso proprio in un periodo in cui la Germania non cresceva molto.
Adesso che i periferici hanno posto in essere una politica fiscale restrittiva (lo Stato spende meno e tassa di più) ci sarebbe bisogno di una politica monetaria espansiva (la combinazione che hanno in Inghilterra per capirsi) ma i Tedeschi hanno ancora incubi dei francobolli da 1 milione di Marchi a causa dell’inflazione che costò la fine della Repubblica di Weimar e l’avvento del nazismo: quindi la BCE non può creare inflazione.
Fin qui la prima parte della storia dell’Apprendista Stregone. La seconda sta iniziando proprio adesso.
Infatti circa i 2/3 delle esportazioni tedesche vanno nella zona Euro. Il valore di queste esportazioni verso l’area Euro è di circa 650 miliardi di Euro all’anno. Avendo forzato una stretta fiscale nei mercati di esportazione, però, la Germania si trova a fronteggiare un calo della domanda per i propri beni, che si sta traducendo in minori esportazioni già adesso.
Cosa può fare quindi Berlino?
Essenzialmente si deve decidere dato che le strade, semplificando come al solito, sono essenzialmente 2:
1-      Maggior integrazione fiscale: se la Germania vuole continuare a godere dei benefici all’export (che proviamo a quantificare sotto) deve accettare questa strada, che poi è quello per cui è nato l’Euro.
Questo costerebbe alla Germania, nel caso peggiore, un 1.5-2% del PIL, ovvero circa 48 miliardi l’anno.
La stima effettuata dall’istituto tedesco IFO è pessimistica, ottenuta semplicemente come media ponderata dei tassi pagati da tutti i Paesi dell’Eurozona. La stima infatti non tiene conto di benefici derivanti da maggior liquidità di un mercato obbligazionario comune e, nella migliore delle ipotesi, passaggio dell’Euro a valuta di riserva mondiale . Nel secondo caso con ogni probabilità i tassi pagati sarebbero in linea con quelli della Germania se non inferiori.
2-      La Germania lascia l’Euro, probabilmente con Austria, Olanda, Finlandia e forse Francia, ma Parigi con ogni probabilità risponderebbe picche, dato che di certo i numeri li conoscono anche lì.
Quest’operazione porterebbe a dover subito ricapitalizzare le banche tedesche: il costo stimato è di 21 miliardi. Questo però sarebbe al limite un pagamento una tantum: il peggio verrebbe da una perdita di competitività sulle esportazioni.
Ricordiamo infatti che il surplus della bilancia commerciale tedesca è di circa 150 miliardi di Euro all’anno (dato Eurostat del 2010).
Molti economisti pensano che, se la Germania tornasse al Marco, si avrebbe un apprezzamento della valuta tedesca del 30-40%. Se il Marco si riportasse al suo valore stimato ce ne sarebbe abbastanza da mandare in deficit la bilancia commerciale (contando anche che il Marco si rafforzerebbe contro dollaro, essenzialmente svantaggiando Berlino in tutti i mercati mondiali), lasciando la Germania a fare quello che avrebbe dovuto da tempo, ovvero consumare una maggior percentuale di quello che produce, riducendo ulteriormente il surplus della bilancia commerciale. Il danno, secondo nostre stime, sarebbe intorno ai 190 miliardi nel primo anno ma poi resterebbe una minor competitività che richiederebbe tempo per essere riassorbita. Nel frattempo molto probabilmente ci sarebbe un aumento della disoccupazione in Germania: non è difficile che la cifra arrivi al doppio di adesso.
A quel punto ci sarebbe poca scelta, per contenere la ricaduta sull’occupazione, se non incrementare la spesa pubblica (non sostenendo però solo la produzione tedesca ma anche le importazioni) o effettuare un’espansione monetaria, con probabili spinte inflattive. Per gli incubi sul francobollo da un milione di Marchi ci sarebbe comunque la psicanalisi, altro export pangermanico di grande successo (Freud era austriaco, Jung svizzero ma entrambi erano di lingua tedesca).
C’è naturalmente l’opzione che è stata seguita finora, ovvero non fare niente e aspettare tempi migliori.
Quest’opzione sta svanendo dato che i mercati, che hanno colto la contraddizione, stanno domandando di ‘vedere il bluff’.

Il Cancelliere Angela Merkel, munita di PhD in Fisica, dovrebbe capire almeno lei gli effetti dell’interesse composto, parenti stretti della funzione esponenziale che non può ignorare.
Prenda dunque la decisione che ritiene opportuna e mostri un po’ di leadership prima che il Maestro Stregone ritorni e bacchetti l’apprendista.

Wednesday 17 August 2011

Fattori determinanti dell'attuale crisi

Sarebbe forse lecito aspettarsi da un economista un’analisi sulla situazione attuale del mercato, corredata da molti grafici e tabelle.
Quelle verranno (in realtà sono già pronte) ma al momento mi sembra più rilevante chiarificare due fattori importanti che, in combinazione, hanno portato l’attuale situazione europea ad un punto di difficile soluzione senza un cambiamento radicale di mentalità.
Il motto dei coloni americani durante la guerra d’indipendenza, recentemente usato ed abusato, era ‘no taxation without representation’, ovvero: nessuna tassazione senza rappresentanza. Gli americani non si lamentavano, come molti credono, del livello di tassazione troppo alto, anche perché pagavano molto meno dei cittadini inglesi. Volevano invece eleggere rappresentanti a Westminster, non un parlamento locale ma quello della madrepatria. Fu il rifiuto inglese a scatenare la guerra d’Indipendenza Americana. Molte altre guerre e rivoluzioni sono state scatenate dal fatto che chi pagava di più per il mantenimento del sistema non poteva prendere le decisioni più importanti, o perché completamente escluso dal processo decisionale o perché comunque in minoranza rispetto ai settori della società che stava effettivamente mantenendo.
Vi chiederete: cosa c’entra questo con la situazione attuale in Europa?
Ebbene ci sono due difetti di rappresentanza che rischiano di minare gli equilibri sociali, dato che hanno già minato quelli economici.
Il primo è comune a gran parte del mondo, e risulta proprio dalla democrazia a suffragio universale: in un mondo che invecchia i giovani che producono la maggior parte del reddito sono in minoranza rispetto alle generazioni più vecchie che più ricevono dallo Stato. Il risultato è una crescita di quelli che in Inglese si chiamano ‘entitlement’ proprio per distinguerli dai ‘right’. I ‘right’ sono diritti fondamentali, come quello alla sicurezza, gli ‘entitlement’ sono diritti accessori, che in italiano vengono spesso definiti ‘diritti acquisiti’. Per evitare la confusione in italiano useremo qui i termini inglesi. Chiaramente per mantenere ed aumentare gli entitlement, di cui per lo più godono i più anziani, bisogna aumentare le entrate dello Stato. Questo si può fare con un aumento delle tasse o del debito pubblico. L’aumento del debito è stato conseguenza della ricerca del consenso elettorale da parte dei partiti presso una popolazione in costante invecchiamento.
L’aumento del debito oggi, però, porta inevitabilmente a dover aumentare le tasse domani se i denari presi a prestito vengono utilizzati non per investimenti che potrebbero aumentare la ricchezza ma per pagare vari entitlement e la crescita degli apparati dello Stato ad essi preposti. Questo è il motivo principale che ha portato il debito di molti Stati a crescere in modo esponenziale dal secondo dopoguerra (in tempi passati gli Stati si indebitavano principalmente per sostenere guerre). Quest’analisi deve molto a quelle di Niall Ferguson, contenute specialmente in ‘The cash Nexus’ e ‘The ascent of money’. Un tipo di entitlement più tipicamente italiano, poi, sono le rendite di posizione di cui godono imprese monopolistiche od oligopolistiche statali o di proprietà di ambienti vicini alla politica. Anche questo è un privilegio che pagano tutti e di cui godono pochi.
Il secondo difetto di rappresentanza è invece tipico dell’Europa, dove le decisioni importanti vengono prese sempre più a Bruxelles e poi ratificate a livello nazionale, mentre gli elettori eleggono principalmente i governi nazionali e locali. Se è vero infatti che il Parlamento Europeo viene eletto, è altrettanto vero che la Commissione (sempre più un Governo) non viene eletta direttamente, ma nominata anche utilizzando logiche di interesse nazionale. In un vuoto di potere durante la crisi, poi, la Banca Centrale Europea ha dovuto prendere in mano la situazione più di una volta, dato che i meccanismi per le decisioni importanti richiedono in Europa molto tempo in quanto devono essere ratificate dai Parlamenti Nazionali. Ovviamente la BCE non è un organo elettivo.
Quest’ultimo difetto di rappresentanza sta creando disaffezione verso l’Europa in larga parte dell’opinione pubblica del Vecchio Continente.
Esistono modi per superare i due difetti che abbiamo individuato senza ricorrere a soluzioni radicali come la riduzione del suffragio, ma che hanno implicazioni molto forti dal punto di vista politico.
Per risolvere il problema generazionale è necessario introdurre un vincolo di bilancio non modificabile. Questo però deve andare oltre il pareggio, che può essere raggiunto con nuove tasse. Infatti le nuove tasse riducono la crescita mantenendo gli entitlement, essenzialmente penalizzando i giovani. Il vincolo necessario deve stabilire che una generazione non può lasciare più debito di quello che ha trovato (come sostiene Laurence Kotlikoff a proposito degli USA http://www.bloomberg.com/news/2011-08-03/generational-balance-not-budget-balance-laurence-kotlikoff.html). Esistono metodi in economia che permettono di misurare queste grandezze e che vertono intorno alla Contabilità Generazionale (Generational Accounting). L’unico modo equo per tutti di procedere è cioè ridurre gli entitlement e le rendite di posizione , di cui alla fine gode una minoranza ma che tutti pagano. Notiamo che in Italia in particolare il difetto di rappresentanza dei giovani si estende, per motivi simili, alla rappresentanza sindacale. La CGIL, principale sindacato italiano, riporta (http://www.cgil.it/tesseramento/default.aspx) nel 2010 una percentuale di pensionati di ben il 52.1%. Oltretutto la categoria di lavoratori attivi con percentuale più alta è quella della funzione pubblica, con il 7.1%. In sostanza quasi un 60% degli iscritti dipende da o lavora per gli entitlement. Un modo per risolvere questo difetto di rappresentanza è superare la contrattazione nazionale e concentrarsi su contratti aziendali. Passi incoraggianti sono stati compiuti in questo senso recentemente. Questi dati possono anche spiegare la forte resistenza al cambiamento da parte del sindacato.
Per risolvere il secondo problema è necessario, se si vuol continuare ad avere un’Unione Europea, accelerare l’integrazione politica dando però ai cittadini la possibilità di eleggere il Governo Europeo. E’ necessario cioè un ridimensionamento del livello decisionale nazionale e l’emergere di partiti Europei che riescano a proporre programmi coerenti per tutta l’Unione.