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Wednesday, 11 April 2012

Lo Stato, il Muratori e i soldi di tutti



Il grande storico settecentesco Ludovico Antonio Muratori riporta nelle sue ‘Antiquitates Italicae Medii Aevi’ la risposta data da un Principe ad una popolazione che aveva chiesto, in termini molto pomposi (‘Assai Cruscanti’, dice il Muratori) la riparazione di un ponte diroccato. Il Principe rispose:

‘E quindi, e quinci e guari rifate ‘l ponte co’ vostri denari’.

Sembra che questa sia diventata, anche se articolata in modo meno ‘Cruscante’, la risposta dello Stato italiano a tutti i vari richiedenti, questuanti e clientes abituali alla richiesta di soldi di Stato.

Chiaramente i richiedenti portano avanti argomentazioni a prima vista condivisibili, come la necessità del sostegno ad una certa industria, o addirittura alle libertà fondamentali, come ultimamente quella di stampa.
Ci sono buoni motivi per spiegare cosa succede quando lo Stato accondiscende a queste richieste.
Diciamo che i soldi siano stati richiesti per sostenere la stampa di partito (esempio degli ultimi tempi).

Lo Stato ha sostanzialmente tre modi (o una combinazione dei tre) per procurarsi i soldi da elargire:

1-Aumentare le tasse. Nel caso di un giornale di partito che leggono in pochi questo significa che anche i cittadini che non lo leggono effettivamente pagano per la sua esistenza. A parte le considerazione sul fatto che questo sia giusto o sbagliato, è evidente che tutti i cittadini, per sostenere un’impresa (un giornale in fondo questo è) in perdita avranno meno soldi da destinare ad altre cose, come ad esempio comprare qualcosa che vogliono (ricordiamo che il giornale non lo volevano, altrimenti non sarebbe stato in crisi) o risparmiare. Nel primo caso un’impresa potenzialmente profittevole vedrà i suoi profitti diminuire o azzerarsi, nel secondo meno credito sarà disponibile per investimenti ad aziende che ne hanno bisogno per restare competitive.

2-Prendere soldi a prestito. Fino a pochi anni fa questa era la scelta principale dello Stato italiano. Sembra sia chiaro a tutti, almeno adesso, che i debiti vanno saldati, e che ora è il momento di farlo.

3-Stampare denaro. Lo Stato italiano non ha, meno male, più questa possibilità, adesso nelle mani della BCE. Se l’avesse, comunque, l’effetto di un aumento della massa monetaria senza aumento della ricchezza prodotta si tradurrebbe nello svilimento del valore della moneta, ovvero inflazione, in tempi più o meno brevi.

E’ ovvio che nessuna delle tre possibilità viste sopra rappresenta un miglioramento della condizione dei cittadini, che vedono il loro potere d’acquisto, il loro reddito disponibile od entrambi calare per effetto della scelta di un Governo di sostenere una causa persa.

Proprio per i motivi descritti sopra speriamo che il Governo continui a rispondere a tutti i vari questuanti di Stato nei termini del Muratori: ‘Rifate ‘l ponte co’ vostri denari’.

Friday, 20 January 2012

Se i vecchi vanno in pensione più tardi è più, non meno, facile trovare lavoro per i giovani.

Si sente dire sempre più spesso da persone, soprattutto politici, male informate (o in malafede) che ritardare l’età pensionabile renderebbe più difficile per i giovani trovare lavoro: invece è l’esatto contrario, e lo dimostriamo con argomenti logici e con la teoria economica. Per chi non avesse voglia di leggere tutto una premessa: la logica e la teoria economica, che da questa in fondo deriva, dicono la stessa cosa dei numeri, che riportiamo in fondo.
Prima la logica, che per gli ammiratori della Scuola di economia austriaca è la luce che guida la teoria economica.
Ebbene, affermare che prima vanno in pensione i vecchi, più posti di lavoro si ‘liberano’ per i giovani presuppone che il numero dei posti di lavoro disponibile sia fisso e che i giovani prendono il posto lasciato dai vecchi. Alternativamente la logica potrebbe funzionare se ci fosse una sorta di ‘coda’ per cui ad esempio i sessantenni, al momento del pensionamento, lasciano il posto ai cinquantenni, i cinquantenni di seguito ai quarantenni e così via. Il primo ovvio problema è che quest’ultima ipotesi richiede che le competenze richieste sul lavoro siano costanti o simili nel tempo, tanto da poter essere imparate e perfezionate in modo costante da tutti. Si presuppone anche che gli avanzamenti di carriera avvengano esclusivamente per anzianità e mai, o solo rarissimamente, per merito. Questi difetti logici sono abbastanza gravi, ma prendiamo comunque tutto per buono.
Il vero problema con il ragionamento di cui sopra è che, ammesso come dobbiamo per farlo funzionare che il numero dei posti di lavoro fosse fisso, il tasso di disoccupazione dovrebbe crescere con l’aumento della popolazione. Infatti è ovvio che una popolazione in crescita significa più giovani che entrano nel mondo del lavoro che vecchi che lo lasciano. Il tasso di disoccupazione però non solo non aumenta all’aumentare della popolazione, ma addirittura diminuisce. Il grafico sotto riporta la popolazione italiana (in milioni, scala a destra) ed il tasso di disoccupazione in Italia (in percentuale, scala a sinistra) dal 1983 ad oggi.


In questo periodo tra l’altro non solo si è avuto un aumento della popolazione, evidente dal grafico, ma anche un progressivo aumento dell’età pensionabile. Da una semplice osservazione del grafico appare già chiaro che la disoccupazione non solo non aumenta all’aumentare della popolazione, ma addirittura diminuisce.
Per gli amanti dei numeri la correlazione è -58%.
Esaurita la dimostrazione per assurdo, tanto cara ad Occam (filosofo, non economista: si rassicurino pure i non economisti), chiediamo aiuto alla teoria economica per cercare di spiegare il fenomeno.
Tutti gli economisti, incluso Marx (il fatto che non fosse davvero un economista ignoriamolo) sono d’accordo nel dire che il lavoro crea valore. Questo significa che una maggior quantità di lavoro crea maggior valore, e perciò maggiore crescita. La crescita porta poi ad un aumento della domanda di beni e servizi (dovuta nel nostro caso anche ad un semplice aumento della popolazione: più gente ha bisogno di mangiare, vestirsi etc.) che fa aumentare l’occupazione. Fin qui la teoria economica.
Purtroppo, come al tempo di Galileo gli aristotelici si rifiutavano di guardare i risultati degli esperimenti del grande pisano pur di non dover ammettere che Aristotele (o meglio la loro interpretazione dei suoi scritti) aveva torto, ancora oggi ci saranno coloro che affermeranno che quanto sopra non basta, che è solo teoria (anche se abbiamo riportato numeri) e così via.
Ebbene per essi ci sono studi empirici. Qui citiamo quello del Dipartimento di Industria e Commercio britannico del 2003 (governo laburista: non lo si accusi quindi di essere di destra ultraliberale). A partire da pagina 60 (70 del pdf) viene dimostrato con dati empirici di diversi Paesi che ritardare l’età pensionabile non fa aumentare la disoccupazione giovanile. Agli scettici buona lettura al seguente link:

Thursday, 15 December 2011

L’Euro e la deflazione di Weimar: perché gli sforzi per riconquistare la fiducia dei mercati nell’Euro per ora sono falliti


E’ ormai chiaro a molti analisti che il motivo per cui una soluzione vera alla crisi dell’Euro non è stata trovata finora è l’incubo tedesco di una ripetizione dell’iperinflazione che distrusse la Repubblica di Weimar e consegnò lo Stato ai Nazisti.
Sembra questa l’unica spiegazione possibile per un Paese esportatore che forza una stretta fiscale nei suoi principali mercati di sbocco: irrazionalità che confina con la follia.
Non è la ripetizione dell’iperinflazione della Repubblica di Weimar che i tedeschi dovrebbero temere, ma la forte deflazione che ebbe la stessa Repubblica.
Se i creditori sono preoccupati per le difficoltà degli Stati europei di ripagare il loro debito non è perché il debito è alo in se’, ma perché è alto in proporzione al PIL. L’attenzione di investitori razionali nei mercati del credito è perciò sulla crescita quanto sul debito.
Correggere uno squilibrio del rapporto deficit /PIL può essere paragonato al tiro ad un bersaglio mobile, con la differenza che il tiro può anche muovere il bersaglio. Il problema di usare solo, o prevalentemente, misure di austerità è che i benefici sul debito possono essere cancellati dal danno al PIL. Se lo Stato aumento le tasse, questo stesso atto può diminuire la crescita tanto da generare entrate fiscali più basse di quelle che lo Stato avrebbe avuto senza aumentare le tasse. In questo modo può essere iniziata quella che gli economisti chiamano un spirale di debito. Una volta iniziata, uscire da una spirale di debito può essere molto difficile.
Li misure adottato in Grecia fino ad ora sono proprio un esempio di spirale di debito. Il Governo impone solo, o prevalentemente, nuove tasse con poche riforme strutturali o veri tagli alla spesa dello Stato. Questo porta ad una contrazione economica che finisce per deprimere le entrate fiscali. Ripetere daccapo. Alla fine, questo ha creato forte deflazione in Grecia.
Se l’Italia farà lo stesso il problema si presenterà su scala molto più grande. Ciò potrebbe portare a fallimenti multipli di Stati, banche ed aziende in tutta Europa e nel mondo e, come ultimo atto, stampa di moneta ed iperinflazione.
Questa, signori tedeschi, è la ricetta giusta pe runa ripetizione dei problemi di Weimar, non stampare moneta adesso.
Il motivo per cui stampare moneta porterebbe solo ad un modesto rialzo dell’inflazione è molto semplice: i meccanismi di trasmissione del credito non funzionano a dovere perché il sistema bancario non sta rispondendo. Se questo non fosse il caso, le massicce iniezioni di liquidità nel sistema bancario da parte della BCE avrebbero già creato inflazione ben oltre il 5%. In linguaggio da economisti, la velocità della moneta è molto bassa. Se dovesse accelerare di nuovo a livelli normali con il rischio di creare inflazione, sarebbe relativamente semplice per la Banca Centrale limitare di nuovo la liquidità.  Se non è chiaro come farlo a Francoforte, signori dell’Eurotower, potete mandare un’e mail al vostro amico in Toscana. A pensarci bene potreste voler venire di persona: fate voi.
Stampare moneta, quindi, non sarebbe una soluzione in se’. Altre misure sono necessarie. Progressi sono stati fatti per aiutare il sistema bancario a funzionare di nuovo (a dimostrazione che Draghi sa già cosa fare, anche se potrebbe voler venire in Toscana lo stesso per un buon pranzo) ma si deve fare di più sul fronte della crescita, e questo è lavoro dei politici.
Bisogna notare innanzitutto che ci sono studi (ad esempio di Alberto Alesina di Harvard) che mostrano come diminuire la spesa dello Stato è un modo molto migliore per riequilibrare il rapporto debito/PIL di quanto non lo sia alzare le tasse. Quindi le misure fiscali dovrebbero andare molto più nella direzione di tagli e meno nell’aumento delle tasse. Per ora è stato il contrario in Europa, eccetto forse in Gran Bretagna. L’Italia ha annunciato una serie di liberalizzazioni e vendite di asset governativi anche locali ma non ha ancora fatto niente di concreto. Vedremo se l’economista Mario Monti riuscirà dove finora tutti hanno fallito.
Con le risorse così rese disponibili è necessario non ascoltare suggerimenti di incrementare la spesa statale ma di utilizzarle per ridurre il debito. Coloro che suggeriscono interventi keynesiani non considerano che questi non funzionano se lo Stato può finanziarsi solo a tassi punitivi. D’altra parte lo Stato deve ridurre la burocrazia per incoraggiare investimenti privati in necessarie infrastrutture. Tutto quello che lo Stato deve fare è vendere le concessioni: il libero mercato può fare il resto. Le ferrovie europee sono state costruite così nel diciannovesimo secolo, quindi perché non dovrebbe funzionare ancora?
La combinazione di questi interventi avrebbe forte effetto di stimolo, specialmente se venissero anche adottate azioni per aumentare la partecipazione alla forza lavoro. Questo significa mandare la gente in pensione più tardi (come stanno facendo) ed incoraggiare l’occupazione di donne e giovani. Se queste misure avranno successo nell’aumentare la partecipazione alla forza lavoro, la crescita trend si alzerà.
Allo stesso tempo , però, è anche necessario ristabilire il funzionamento dei canali di trasmissione del credito.
Al momento questi non funzionano perché le banche preferiscono mantenere liquidità invece di prestare ad altre banche. Questo è dovuto ad incertezze riguardo gli haircut sul debito sovrano (che si stanno eliminando in Europa grazie soprattutto all’intervento francese) e sulle riserve di capitale. Se l’Europa vuole evitare una stretta creditizia deve chiarificare quali saranno le riserve necessarie e quando saranno introdotte. L’incertezza creata dai politici in merito condiziona negativamente gli sforzi che l’ottima BCE fa per introdurre misure di liquidità.
Il giornalista italiano Beppe Severgnini ha scritto sul Financial Times chiedendo ai tedeschi di smettere di essere irrazionali sull’inflazione, notando correttamente che quando i mediterranei chiedono ai tedeschi di smettere di agire in modo emotivo si contraddicono alcuni cliché.
Il Cancelliere Merkel ha il dovere di spiegare le conseguenze di austerità senza crescita (ovvero la deflazione) ai suoi elettori, altrimenti potrebbe essere rieletta solo per coordinare la rottura dell’Unione Europea (con corollario di iperinflazione).
Signori tedeschi: nessuno vuole i vostri soldi. Dovete solo essere ragionevoli. Vediamo se finalmente capiscono!

Monday, 28 November 2011

Reductio ad absurdum: perché l’Euro non sparirà


Molti continuano a chiedersi se l’Euro può effettivamente cessare di esistere. Premesso che tutto è possibile, proviamo a dimostrare per assurdo perché uno sfaldamento della Moneta Unica è almeno poco probabile.
Premettiamo che, data la cattivissima gestione della crisi da parte francese, ma soprattutto tedesca, il costo di tenere insieme l’Euro è aumentato, ovviamente in modo esponenziale (come faccia la Merkel con un PhD in fisica a non averlo previsto è un mistero). Data infatti la storia pregressa, sono stati reintrodotti all’interno dell’Unione Monetaria prima il rischio di credito (non è più ovvio che uno Stato non possa fallire: si veda post precedente), e poi il rischio di cambio. Quest’ultimo punto richiede forse un’ulteriore spiegazione. Quando Francia e Germania, in una delle conferenze stampa che hanno seguito uno dei loro tanti (troppi?) incontri bilaterali hanno dichiarato che il restare o meno nell’Euro stava alla Grecia, hanno effettivamente ammesso la possibilità di uscirne. I mercati, logicamente, non potevano non cominciare a prezzare la possibilità di uscita dall’Euro, intesa come percentuale di svalutazione in caso di uscita moltiplicato per la probabilità che il fatto avvenga. La probabile svalutazione monetaria si aggira, secondo molti, intorno al 30-40%. Anche una probabilità di uscita non grandissima, diciamo un 10%, giustifica quindi un aumento degli spread del 3-4%: un’enormità.
 Tutti gli spread da allora sono quindi aumentati notevolmente. In particolare sono aumentati quelli a breve più di quelli a lungo termine. Ovvero il costo di finanziamento di una Stato di cui si percepisce la possibile uscita è adesso maggiore a 2 anni che a 10. Anche se questo non può essere provato, non è escluso che il maggior costo sia da imputarsi appunto al possibile tasso di cambio di una nuova (vecchia) valuta, che da una parte è più probabile nel breve termine che nel lungo termine (se l’Euro sopravvive i prossimi 2 anni è probabile che sopravviva anche i successivi 8) e dall’altra, in ogni caso, avrebbe effetti soprattutto nel breve termine. Il termine sarebbe quello della durata media del debito, che nella periferia dell’Eurozona è appunto intorno a 2-3 anni.
Dato quanto sopra la crisi dell’Euro sta assomigliando sempre di più ad una crisi di Paesi emergenti che avevano deciso di legare la loro valuta ad una più forte. Ci sono molti esempi di queste crisi in Sud America nei decenni passati: in questi casi i Paesi legavano la loro valuta più tipicamente al Dollaro Americano. Ci sono ovviamente differenze tra questi casi e quello dell’Euro, in quanto in Sud America le valute sono sempre rimaste separate (un dollaro era un dollaro ed un peso era un peso). I rischi coinvolto sono però simili: appunto rischio di credito e rischio di cambio dello Stato più debole.
Utilizzando i precedenti  appena citati, vediamo dunque come si svolgerebbe un’eventuale rottura. Prima che a qualcuno prenda paura: questo scenario è di gran lunga il meno probabile, e leggendo fino in fondo si vedrà perché.
La popolazione si sveglia una mattina, quasi sempre di Domenica dato che le banche sono chiuse, ed apprende che da oggi un euro è diventato X nuove Lire, Dracme etc. Fin qui ovviamente l’immaginazione di molti si sarà già spinta. La maggior parte delle persone non avrà però pensato alle conseguenze inevitabili, a meno che altri provvedimenti vengano presi contestualmente. Lunedì mattina si creano code agli sportelli delle banche perché tutti vogliono ritirare i loro soldi e/o cambiarli in un’altra valuta (o semplicemente vengono intasati i server degli istituti di credito da operazioni di bonifico su estero). Infatti si penserebbe, con buone ragioni, che la nuova (vecchia) moneta si svaluterebbe rapidamente contro altre monete più forti. Questo porterebbe con ogni probabilità al collasso del sistema bancario prima ancora che lo facessero le partite di debito denominate in moneta forte. L’unico modo per evitare il collasso sarebbe annunciare, contestualmente all’introduzione della nuova (vecchia) valuta limiti di ritiro dai conti correnti e, soprattutto, limiti all’espatrio di capitali ed al libero movimento di merci e persone oltre confine. Questi limiti sarebbero in contrasto con i trattati costitutivi dell’Unione Europea. Un collasso dell’Euro sarebbe quindi inevitabilmente legato alla disgregazione, o almeno alla sospensione con prospettive di forte ridimensionamento, dell’Unione stessa. Tutto questo probabilmente non salverebbe le banche, che avrebbero bisogno di iniezioni di capitale massicce dallo Stato.
Prima di pensare che questo sarebbe auspicabile inviterei a considerare che le conseguenze sarebbero indesiderabili per tutti, in particolare per i Paesi esportatori, tra cui anche l’Italia. Chi ha più da perdere da un ridimensionamento dell’Unione è ovviamente la Germania, l’esportatore più forte soprattutto intra-Eurozona, che subirebbe il doppio effetto di una rivalutazione drastica della propria valuta e di nuovi limiti al libero movimento di merci. Già questo spiega perché un collasso dell’Euro è improbabile: costerebbe alla Germania molto più di mantenerlo in piedi (vedi ‘la Germania e l’apprendista stregone’).
Le conseguenze di una rottura, però, non si limiterebbero a quelle appena descritte. Quelle sulle aziende sarebbero anche più pesanti. Infatti molte delle partite commerciali anche di piccole imprese sono ormai internazionali. Ad esempio un’azienda spagnola che deve pagare un fornitore francese in Euro vedrebbe il suo debito aumentare per effetto della svalutazione della Peseta contro il Franco. Le interconnessioni sono tante e tali che una serie di fallimenti a catena sarebbero probabili. Ovviamente questo porterebbe ad un aumento esponenziale della disoccupazione in tutta Europa. Alla fine l’unico modo per evitare una serie di fallimenti a catena negli Stati che lasciassero l’Euro sarebbe stampare moneta, il che porterebbe ad una spirale inflattiva che finirebbe per non riuscire a contenere significativamente i fallimenti ma creerebbe ancora maggior distruzione di ricchezza.
Dato quanto sopra, quindi, è molto improbabile che una rottura dell’Euro venga ammessa, non ultimo perché danneggerebbe di più proprio chi oggi si oppone a misure monetarie drastiche, ovvero la Germania.
A questo punto viene da chiedersi se i politici tedeschi sappiano tutto questo. La risposta, con ogni probabilità, è che lo sanno, ma forse pensano di poter arrivare alle elezioni del 2012 prima di mettere in atto l’inevitabile. Dubitiamo che avranno questo lusso, in quanto la funzione esponenziale (sempre lei) sta già esercitando la sua pressione.

Sunday, 23 October 2011

L’importanza dell’alternativa: possibili implicazioni della scomparsa del tasso senza rischio (risk-free rate)


In una scelta ponderata si analizzano le varie alternative, poi si sceglie la migliore in confronto alle altre.
In altre parole prendiamo decisioni scegliendo la miglior alternativa disponibile.
Questo semplice processo, oltre ad essere comprensibile perché di buon senso, è alla base delle teorie economiche e, conseguentemente, di quelle di portafoglio. Le scelte di investimento, infatti, sono solitamente ponderate e raramente vengono prese d’impulso.
Il tasso senza rischio rappresenta il tasso che un investitore può aspettarsi di ricevere se non vuol prendere, appunto, alcun rischio. In media esso dovrebbe essere simile al tasso di inflazione. Questo tasso è stato sempre rappresentato dal rendimento delle obbligazioni statali, in quanto si dava per scontato che la probabilità di un fallimento dello Stato fosse così remota da risultare irrisoria.

Il tasso senza rischio diventa così la base delle decisioni di investimento, quello che permette poi di decidere quali rischi prendere a seconda del rendimento atteso. La sua mancanza crea confusione tra chi deve prendere una decisione, e suggerisce a chi non vuole rischi di tenere i soldi (figurativamente) sotto il materasso. Per lo più questo vuol dire mantenere liquidità in conto corrente con rendimenti molto bassi ma con disponibilità immediata di fondi in caso di necessità.

L’effetto è estremizzato in momenti di crisi economica, dato che l’incertezza spinge molti a non volere alcun rischio. La conseguenza, in mancanza di investimenti senza rischio, è quindi un aumento dei fondi nei conti correnti delle banche.
In un periodo di buon funzionamento dell’economia questo si tradurrebbe in maggiori investimenti dato che le banche poi presterebbero i soldi a chi ha intenzione di utilizzarli. Oggi però le banche sono riluttanti a prestare alle imprese per una combinazione di aumento delle sofferenze (imprese che non ripagano i prestiti) e incertezza sulle regole di capitale ( la politica sembra cambiare idea ogni settimana su quanto capitale le banche dovrebbero detenere a garanzia dei prestiti).
Allo stesso tempo anche gli imprenditori sono riluttanti ad aumentare i loro debiti dato che temono che i loro investimenti non vengano remunerati a causa della contrazione economica. Uno degli effetti della crisi è stata proprio la sparizione del tasso senza rischio: il rendimento del debito statale ha iniziato a scontare una parte di rischio di credito (cioè la possibilità che lo Stato non paghi il suo debito). 

Questo effetto, che potrebbe sembrare poco importante, ha invece come abbiamo visto implicazioni fortissime.
Il problema tra l’altro non è limitato all’Italia ne’ all’area Euro. E’ infatti noto che da una parte gli Stati Uniti hanno perduto la AAA nei giudizi delle agenzie di rating, dall’altra anche la Germania comincia a preoccupare e preoccuparsi dato che deve sostenere l’Euro (è di gran lunga il Paese che se ne avvantaggia di più) ma per farlo rischia di dover impiegare risorse tali che chi compra debito tedesco chiederà più interesse proprio per un percepito aumento del rischio di credito (le ultime aste del Bund hanno avuto scarsa domanda e rendimenti sopra il 2%: il segnale è allarmante, anche se potrebbe significare solo una convergenza inevitabile dei rendimenti in vista di una tesoreria comune vista più vicina).

E’ necessario che la politica riparta da qui: ristabilire che il debito dello Stato è effettivamente senza rischio significa creare la certezza di base che può portare al ripristino della fiducia necessario per un’espansione economica.

Al momento purtroppo i leader europei sembrano lontani da questa consapevolezza: infatti da un lato propongono prestiti ponte agli Stati in difficoltà che al massimo possono risolvere crisi di liquidità ma non di solvibilità e dall’altro sembrano spingere per una ricapitalizzazione del sistema bancario. Quest’ultima mossa manda un segnale molto pericoloso: quello che ci si aspetta che alcuni Stati falliscano. Per quale altra eventualità, infatti, si dovrebbero aumentare le riserve? Se in battaglia si rinforzano le seconde linee a scapito delle prime, è razionale pensare che si voglia ripiegare. 

Il nemico in Europa è all’interno, non negli speculatori che, a detta di quei politici che ci hanno portato in questa situazione per incompetenza e mancanza di capacità di risolvere i problemi, sono la causa di tutti i mali. La speculazione è semmai un comodo capro espiatorio da dare in pasto ad elettori che non hanno basi culturali e capacità critiche, ma soprattutto autocritiche (la classe politica l’hanno votata loro) per giungere alla giusta conclusione.

Wednesday, 12 October 2011

Grecia e banche: salvataggio o fallimento?

In molti, specialmente nel centro-nord Europa, ritengono che si dovrebbero far fallire gli Stati e le banche perché è immorale salvarle.
Questa potrebbe essere vista come la soluzione giusta, ma è forse la domanda ad essere sbagliata.
Chi poi pensa di poter controllare gli effetti di una bancarotta guardi il grafico: la crisi greca segue temporalmente in modo quasi esatto la cauta di Lehman. Anche se è vero che correlazione non implica rapporto causa-effetto, questa volta almeno la concausa sembra probabile.
La cosa giusta da fare è attuare la soluzione che costi meno alla collettività e poi renderla moralmente accettabile. Proviamo a spiegare con un esempio.
Un anno prima del fallimento Lehman Brothers aveva un valore di mercato di circa 46 miliardi.
Poco prima del fallimento ne valeva appena 6.
Poniamo pure che un salvataggio potesse costare 50 miliardi (stima per eccesso).
Il mancato salvataggio della banca americana, come tutti sanno, ha fatto partire una spirale negativa che si è ripercossa a tutte le controparti: il conto finale è stato di 5.000 miliardi.
In altre parole, per ogni dollaro non speso per salvare Lehman se ne sono dovuti spendere 100 per ripagare i danni causati dal non averlo fatto: se non fosse chiaro in entrambi i casi si parla di soldi della collettività.
Quindi cosa poteva essere fatto diversamente?
Il primo passo è effettuare il salvataggio, dato che come abbiamo visto sarebbe costato molto meno dell’alternativa.
Ovviamente questo significa che lo Stato, essendo quello che aveva immesso il capitale, diventa proprietario dell’azienda, che deve essere risanata e rimessa sul mercato.
Esiste un precedente: in Svezia nei primi anni 90 la situazione era molto simile a quella in cui si ritrovarono gli Stati Uniti nel 2007: bolla immobiliare e credito facile avevano creato panico e perdita di posti di lavoro. Il governo svedese nazionalizzò le banche, le risanò e poi rivendette le quote, ripagando alla fine il costo dell’operazione: secondo alcune stime i contribuenti svedesi avrebbero addirittura guadagnato, e questo senza contare i maggiori costi che avrebbero dovuto affrontare in caso di crack e relativo contagio.
A questo punto occorre però rendere la soluzione moralmente giusta: non si può infatti pretendere che il contribuente metta mano al portafoglio per poi vedere coloro che hanno messo in pericolo la banca continuare a far soldi.
Questo si potrebbe fare incriminando tutti i componenti del top management per bancarotta, effettuando il sequestro conservativo di tutti i loro beni. In modo rapido (massimo un anno) si dovrebbe riuscire a stabilire chi tra gli alti dirigenti è colpevole: per questi si può procedere alla vendita di tutti i loro averi e alla condanna penale. Coloro che dovessero risultare innocenti, invece, avrebbero restituito il controllo del loro patrimonio e sarebbero reintegrati al loro posto di lavoro.
Quanto sopra dovrebbe essere possibile senza neanche cambiare le leggi vigenti: basta applicarle e creare un precedente. In caso non fosse possibile adesso, le leggi andrebbero aggiustate di conseguenza.
Naturalmente quest’operazione è leggermente più complicata per una nazione. Il punto principale è riconoscere che i politici che portano una nazione alla rovina sono colpevoli e vanno condannati come i dirigenti che portano un’azienda alla bancarotta. Per loro quindi messa in stato d’accusa e sequestro preventivo di tutti i beni.
Gli amministratori dello Stato sarebbero quindi per un periodo di tempo coloro che hanno messo i soldi per salvarlo: nel caso della Grecia l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea ed il Fondo Monetario Internazionale.
Questi dovrebbero portare avanti una ricerca su due punti fondamentali: il mancato pagamento delle tasse e le assunzioni in eccesso nella Pubblica Amministrazione.
Ai grandi evasori andrebbe applicato il trattamento dei politici: condanna penale e sequestro dei beni. Gli impiegati in eccesso andrebbero licenziati: hanno comunque ottenuto il loro lavoro in modo poco trasparente e probabilmente con meccanismi di voto di scambio se non di corruzione. Ovviamente i licenziamenti andrebbero effettuati solo dopo un concorso regolare e trasparente che riassuma solo il numero di dipendenti pubblici necessari, per evitare che restino proprio coloro che hanno avuto il lavoro per amicizie e protezioni poco pulite.
Tutto questo però non assolve i cittadini greci per aver votato secondo criteri di convenienza a breve termine causando problemi alle generazioni dei loro figli e nipoti: per questo è giusto che, finché lo Stato non è risanato, venga sospeso il voto. Alla fine anche gli azionisti delle banche salvate, tutt’al più colpevoli di mancata vigilanza, perdono tutto quello che avevano investito.
In futuro, per evitare il ripetersi di crisi sistemiche, è necessario il controllo della liquidità nel sistema, che facilita il debito e la creazione di bolle speculative. Inoltre serve un’autorità che possa operare questi controlli su scala sovranazionale. La BCE è un esempio da seguire in questo senso. Proposte per maggiori ambiti di intervento di Eurostat nel controllare i conti dei singoli stati, per ora bocciate, vanno senz’altro riprese ed approvate.

Friday, 16 September 2011

Napoleone, la leadership e i politici di oggi


Napoleone, per gestire al meglio il suo esercito, aveva diviso i soldati lungo due dimensioni.
La prima dimensione era la loro intelligenza, secondo la quale i soldati erano distinti tra intelligenti e stupidi.
La seconda dimensione considerava se il soggetto fosse attivo o pigro.
I soggetti intelligenti e attivi erano utilizzati come ufficiali.
Quelli intelligenti e pigri come generali, in quanto il generale ha bisogno di visione d’insieme e deve saper delegare: non può rischiare di non vedere la foresta per guardare l’albero.
I soggetti stupidi e pigri venivano utilizzati come soldati di fanteria, in quanto adatti a prendere ordini senza porsi domande (in passato si utilizzava l’efficace ma cruda espressione ‘carne da cannone’).
Coloro che erano stupidi e attivi, infine, erano attesi dal plotone d’esecuzione perché pericolosi.
Un corollario del famoso generale corso era che era meglio un generale stupido e pigro di uno attivo ed intelligente, dato cha la pigrizia impediva almeno di fare danni eccessivi. Un buon ufficiale promosso a generale, invece, rischiava di sprecare vite umane e perdere battaglie per la sua irruenza: non tutto si può infatti risolvere con una carica di cavalleria.
Guardando la classe politica della scena internazionale non sembra ci sia un grande sfoggio di capacità di leadership e visione d’insieme.
Potremmo dire che, in generale, i politici di oggi sono attivi; una minoranza, forse, potrebbe essere intelligente.